O quantomeno delle scuole calcio.
Il potrero è l’utero del calcio argentino. Il primo spiazzo munito di un paio di porte, con le reti se Dio è stato particolarmente misericordioso, in cui los pibes hanno rincorso e calciato un pallone (o una palla di stracci, anche in questo caso la misericordia di Nostro Signore entra in gioco) per la prima volta. Spesso, anche per l’ultima: l’onore del professionismo tocca a pochi. Per riempirsi lo stomaco, in un certo momento della vita – che a determinate latitudini arriva presto, troppo presto – accade che questi pibes, non ancora hombres, anziché alla cancha sia costretti ad andare al trabajo.
«Te ne accorgi, quando un ragazzo tiene potrero. Ho sempre osservato la naturalezza di un giocatore, mi consente di capire se passa tutto il giorno giocando a calcio o no. Diego amava il pallone più della sua stessa vita, e si vedeva»
– Francisco Cornejo, primo allenatore di Maradona
Il caso e Goyo Carrizo, un vicino di casa di Maradona che insistette per portarselo appresso a un allenamento, vollero che Cornejo fosse il primo allenatore di colui che al tempo era noto come el Pelusa a causa della lussureggiante chioma, ricci di pece. Scambiato per un nano a causa delle proporzioni e dell’innaturale rapporto con la sfera, dopo aver fugato gli iniziali dubbi circa la veridicità dell’avvenimento – Maradona che disvela il proprio talento al mondo è un miracolo laico – per Dieguito s’è già fatta l’ora di lasciare Fiorito, la villa di polvere e lamiere in cui il suo piede sinistro è la migliore delle cose mai transitate, e inseguire il sogno: giocare un Mondiale, e vincerlo.
L’epica maradoniana, mai quanto oggi abusata in seguito al suo triste trapasso, è e non può non essere il punto di partenza. E d’arrivo. Il più grande talento tecnico nella storia del gioco che il mondo ha scelto di amare nasce in strada, senz’allenatori, arbitri, regole. Istinto, fame letterale e metaforica. Un pallone come unico desiderio e unica possibilità. Ai posteri, cioè noi, ma ancor più ai contemporanei, ciò ha regalato emozioni e visioni irreperibili nella stragrande maggioranza dei musei della Terra. Forse Maradona era un marciano (così lo definì il fratellino Hugo, interpellato a nove anni sulla possibilità di emularlo), sicuramente – per Víctor Hugo Morales – un barrilete cósmico.
Tornando nel nostro tempo, il panorama calcistico appare desolante. Le strade, d’Europa, d’Occidente – cos’è, l’Occidente? – sono state svuotate dalla pandemia. Non circolano più le auto, né i bambini. In realtà, quelli non circolano più da un bel po’: a calcio, per la strada, per le nostre strade, non si gioca più. La conseguenza più evidente è che in campo, oggi, c’è gente che s’è formata in più o meno rispettabili scuole calcio. A scuola di mattina, se capita anche al pomeriggio se mamma e papà sono a lavoro, e a scuola anche nel tempo libero: al bambino occidentale del nuovo millennio non è più concesso essere autodidatta, neppure se vuole, semplicemente, giocare.
«Il primo giorno in cui sono entrato a Trigoria per allenare gli Esordienti della Roma ho fatto fare una partitella. Non ho dato le casacche ai ragazzini e i responsabili mi hanno rimproverato: “Roberto, non puoi non far indossare le casacche, i ragazzi poi non si riconoscono in campo”. “Ma tu da piccolo ci hai mai giocato per strada? – ho ribattuto – Avevi le casacche?”.
– Roberto Muzzi, 93 gol in Serie A, allenatore.
Io sapevo che ero in squadra con il bambino col maglione blu, con quello vestito di rosso e con quello con la maglietta gialla. In questo modo ho imparato ad alzare la testa e guardare dove passare la palla. Oggigiorno i bambini hanno le casacche numerate, le borracce, i conetti. Per strada non c’era niente e mi sono dovuto dare una svegliata in fretta. In tutta Europa la situazione è praticamente la stessa»
– Roberto Muzzi, 93 gol in Serie A, allenatore.
Sbirciando dentro al niente di cui parla Muzzi, ecco che s’intravede il tutto. La strada, con le sue insidie, aguzza l’ingegno. E pure la tecnica. Il pallone, che non sarà mai quello che rotola sull’erba sintetica degli allevamenti intensivi di calciatori, rimbalza come, quando e se gli aggrada: il piede deve farsi mano, in barba a ogni legge anatomica, e acquisire una sensibilità che gli consenta di ammansire l’imprevedibile.
Il tempo scorre diversamente, non linea retta bensì arabesco: giocare a calcio in strada significa cliccare su play, pause, stop, skip next e skip back seguendo una logica incomprensibile a chi scorrazza sull’erba appena tagliata, la linea laterale come confine del mondo. La punta inganna l’avversario e la ruvidità del cemento, un movimento dell’anca può essere più efficace di un tiro di collo pieno, e con ogni pallone nasce una storia d’amore: sgonfio o marmoreo, di cuoio o di gomma, finanche ovalizzato, Cupido fa il suo dovere ed ecco che il calciatore di strada ne accetta pregi e difetti, portandolo all’altare. Sarà un matrimonio lampo.
Altrove: lo stop di piatto, il tiro di collo, il dribbling sì ma anche no, e la rimessa laterale da eseguire con la precisione solitamente richiesta a un cardiochirurgo. Johan Cruijff, che pure era nato in un quartiere di cemento (Betondorp significa letteralmente questo, dopotutto) si compiaceva, nell’età della ragione, d’esser cresciuto in strada, imparando ben presto che un ginocchio sbucciato faceva più male di una palla persa, e uno stop sbagliato poteva costare ben più caro del rimbrotto di un mister. Mister che, essendo assente, non avrebbe potuto castrare alcun talento emergente, negandogli un dribbling di troppo, o un colpo di tacco superfluo, o l’uso sistematico dell’esterno di un piede e solo di quello. E neppure istigarlo a servire il compagno meglio posizionato: compagno di squadra, ma non di gioco.
Questa professionalizzazione prematura del giovanissimo, per cui il calcio smette d’essere attività ricreativa non appena indossa la divisa della propria squadra, squadretta, anche se ha un’età in cui l’unico scambio di cui dovrebbe intendersi è quello delle figurine e la diagonale gliel’ha forse provata a insegnare la maestra in riferimento a qualche figura geometrica, influisce sull’interpretazione del gioco, il calcio, che sembra farsi mestiere, perdendo ogni caratteristica ludica per il praticante (e per l’osservatore quando, anni più tardi, il talento in erba riempirà gli stadi).
Mentre «dove il mondo è più indietro e un po’ meno bastardo» e si gioca spesso e volentieri senza scarpe, senza maglia, e a volte pure senza un pallone vero e proprio, la tecnica è ancora la cosa che conta di più: un tunnel regala più gioia di un gol, con buona pace del calcio algoritmico propinato ai bambini del cosiddetto primo mondo, cui quelli formatisi sulle strade del terzo oppongono orgogliosi esecuzioni che i coetanei più fortunati, anestetizzati dalle consolle, non sono in grado nemmeno di immaginare.
Nel nostro emisfero il calciatore di strada è ormai una specie protetta. Sempre più raro, a un passo dall’estinzione. Fauna urbana, che resiste – selvaggia – solo in alcune, (s)fortunate periferie. Gli esemplari migliori, però, sono inesorabilmente destinati alla cattività. Jadon Sancho, sangue caraibico (Trinidad e Tobago) ma natali londinesi, è uno di questi: quando ancora non sa scrivere il suo nome se la cava già col nutmeg, che per quelli come lui – come noi – non è la noce moscata, ma il tunnel. Cresce a Kennington, sud di Londra; un’assonanza con Kensington, sinonimo di lusso ed esclusività, poi nient’altro:
«Dopo la scuola, volevo solo giocare a calcio. Tutt’intorno a me c’erano persone che facevano cose brutte, ma non ho mai voluto avere a che fare con loro».
Per emergere, per evadere. Il calcio, in strada, è anche una via di fuga: la sua si chiama Watford. Lasciarsi tutto alle spalle non è semplice, perché puoi togliere un ragazzo da Kennington ma non puoi togliere… inutile concludere, la conoscete tutti questa frase. Tanto banale quanto vera: giocare, o anche semplicemente esistere in tali contesti, plasma l’individuo.
L’ingiustizia, la violenza e la sopraffazione possono, nel tempo di un battito di ciglia, diventare le protagoniste di qualsiasi interazione, e di qualsiasi partita. Per strada nessun arbitro fischierà, né metterà mano al taschino; e l’allenatore-educatore non potrà intervenire per calmare gli animi, così come nessun genitore potrà scendere in campo per proteggere il proprio pargolo. O impari a nuotare oppure affoghi: sto parlando di calcio, ma il concetto è più valido qui che in qualsiasi piscina del mondo.
Sancho, che ha imparato benissimo a stare a galla, attraversa a nuoto la Manica e sguazzando nel fiume Ruhr arriva a Dortmund. Lo scorso Natale, sotto l’albero si ritrova un regalone: Erling Håland. Nato 300 km più a nord, 118 giorni dopo di lui, il figlio di Alf-Inge – in precedenza noto esclusivamente a causa della vendetta perpetrata ai suoi danni da Roy Keane – è la sua nemesi. Alta ingegneria automobilistica l’uno, tuning l’altro. Sancho asseconda il proprio gusto, esige d’esprimersi in assoluta libertà; Håland ragiona e calcola, l’obiettivo è il limite e il suo superamento, il percorso alternativo ma lineare.
Un automa: perfetto, sempre. Alimentazione, movimenti in campo, ritmo circadiano, tiro in porta, presenza sui social network, esultanza, procuratore, colpo di testa. Sembra, spesso, anche lui transitato sul nostro pianeta per caso, forse per errore: come se l’astronave avesse sbagliato le coordinate, come se ci fosse stato un guasto al GPS intergalattico. Persino le emozioni paiono artefatte. Guai a pretendere genialità, ché non è cosa comune tra i mortali, ma la carenza di scaltrezza è evidente, ed è una lacuna destinata a non essere colmata mai.
Sancho, purtroppo, non potrà regalargliene neanche un po’, mica come gli assist. La strada non s’insegna, perché in fin dei conti «Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento». E il fatto che non l’abbia davvero detto Darwin al calciatore di strada non interessa, perché sa che è vero, come è vero il calcio che si gioca in strada.
«Un giorno andammo a vedere la Nazionale tedesca, che era la nostra probabile avversaria, e i suoi giocatori ci parvero superuomini. Il calcio europeo ci intimidiva per la sua velocità e la sua forza fisica, e la Germania, con la sua sola presenza, confermava quella leggenda.
Nessuno parlava, ci limitavamo ad ammirare quello spettacolo fisico con un certo complesso di inferiorità. Menotti invece rimase tranquillo, e se il leader è tranquillo… Improvvisamente, uno dei giocatori più coraggiosi, quello dall’aspetto più fragile e di origini più umili ruppe il silenzio per dire, sbuffando: «César, questi tedeschi sono fortissimi» «Forti? Quelli lì?» rispose Menotti con prontezza indimenticabile. «Non dire cretinate. Se prendiamo uno qualunque di questi biondoni e lo portiamo nel quartiere dove sei cresciuto tu, dopo tre giorni lo portano via in barella. Forte sei tu che sei sopravvissuto a tutta quella povertà e giochi a pallone dieci volte meglio di quei pezzi di legno». (Jorge Valdano, campione del Mondo con la Nazionale argentina nel 1986).