Cultura
21 Gennaio 2025

I vecchi di Keio

Alle origini del moderno karate.

La sala di allenamento di karate si trovava nella mansarda della vecchia palestra e per raggiungerla era necessario passare dal retro, infilarsi in un andito e salire la scala a chiocciola di ferro battuto color rosso mattone che portava al piano superiore. Sulle pareti, quasi ad accompagnare la salita, erano appese decine di fotografie in bianco e nero e ritagli di giornali che raccontavano una storia: quella dei pionieri del karate italiano negli anni Settanta.

Allenamenti in palestre ricavate da parcheggi sotterranei, in piccole sale afose ed umide, prove di rottura di tavolette e tegole, pesistica, mani fasciate, palazzetti dello sport straripanti di spettatori e karateka allineati pronti a combattere a squadre. E i ritagli di giornale a ricordare gli Open di Francia del 1968, l’Esagonale con la Jugoslavia nel 1972, i Mondiali di Bonn del 1977, sempre con i Maestri giapponesi computi nei loro completi scuri ad arbitrare o ad accompagnare i karateka in gara.

Quei pochi gradini erano il racconto di un’epoca.

Arrivati al pianerottolo faceva bella mostra di sé, appesa al muro, una logora bandiera della Marina imperiale giapponese, dono di qualche Maestro, cimelio di cinerea memoria esposto non per assimilazione ideologica ma perché richiamava valori di sacrificio, abnegazione, dedizione e dovere. Si apriva poi la mansarda dal tetto spiovente, in legno e parquet, con le pareti anch’esse colme di poster sulle posizioni del karate, le tecniche di lotta del judo, quelle del pugilato e della savate, e le foto dei Maestri fondatori che silenti scrutavano con severità i nostri allenamenti.

Lungo la parete, accanto alla panca per gli ospiti, erano poi accatastati vecchi tatami, sacchi da boxe, bilancieri, un paio di makiwara e la rastrelliera dov’erano alloggiate alla rinfusa armi di vario genere: shinai del kendo, bokuto del ken-jutsu, bo del bo-jutsu, sai, nunchaku e tonfa del kobudo. E poi l’odore, quel misto di umidità, sudore, condensa, cotone lavato troppe volte e legno vecchio tipico delle sale di allenamento delle arti marziali; subito dopo i rumori, il ritmico incidere dei passi della corsa di riscaldamento, lo scrocchio del makiwara sotto i colpi per condizionare le nocche, la frustata del karate-gi durante le sequenze dei kata (forme), lo “stock” delle ossa che impattano durante il condizionamento, il tonfo sordo di chi è stato atterrato con una spazzata, i ki-ai feroci di chi già combatte; infine, il toc-toc della shinai del Maestro che picchietta ritmicamente sul pavimento mentre si aggira, silenzioso, osservando gli allievi riscaldarsi.

Quel toc-toc era per me una clessidra che riavvolgeva il tempo al contrario, risucchiando i granelli di sabbia tanti quanti erano gli anni che mi separavano, appena adolescente qual ero, dalle foto appese sulla scala a chiocciola e da quella logora bandiera dai sedici raggi riportata a casa da qualche studente giapponese tornato dalla guerra nelle sale di allenamento della sua università giapponese. Dove il suo Maestro era rimasto ad attendere il ritorno dei pochi sopravvissuti di una generazione destinata a morire anzitempo. Ad attendere, battendo il tempo con il ritmico toc-toc del suo bastone.



Il karate si era diffuso in Giappone grazie all’opera di alcuni pionieri giunti dall’isola di Okinawa e supportati dal Ministero dell’Educazione che, come era stato fatto in precedenza con il judo, decise di includere questa arte marziale nel curriculum scolastico delle scuole medie, superiori e delle università. Il nazionalismo militarista e la sbornia imperiale degli anni Trenta fecero il resto, irreggimentando la società e dunque anche la pratica delle arti marziali agli obiettivi di guerra. Dopo aver assorbito l’uniforme, i gradi ed i metodi del judo, il karate subì un processo di inculturazione deviante per assecondare le esigenze della Kōdōha, la fazione espansionista e militarista dell’Esercito imperiale giapponese.

Allenamento di kendo sul ponte della corazzata Yamato nel 1942 (sx). Bandiera della Fazione della Via Imperiale (Kōdōha) usata durante il colpo di Stato del 26 febbraio 1936 (c). Soldati dell’Esercito Imperiale impegnati nell’addestramento con la baionetta (dx)

La gerarchia, i gradi, l’uniforme, l’autorità dei maestri, l’educazione alla disciplina ed al sacrificio attraverso lo sforzo fisico dovettero apparire, agli occhi di un regime devoto al più cieco militarismo, come un’ottima malta per la costruzione di un nuovo tipo di giapponese. Lo studio del kihōn (ripetizioni di combinazioni tecniche di base secondo direttrici geometriche) era un utile propedeutico all’istruzione formale ed alla marcia, così come la pratica del kumite (combattimento) poteva fornire alle forze imperiali soldati già mentalmente svezzati allo scontro fisico.

Un’intera generazione, gioventù mai fiorita ed incipientemente invecchiata, andò così alla guerra e non tornò, morendo nei campi di battaglia tra le giungle della Birmania, le valli della Manciuria o la sabbia vulcanica di Iwo Jima. Insieme a quei giovani, tra la bandiera a sedici raggi e le logore giubbe grigio-verde, fu perduto un patrimonio marziale acquisito negli anni della scuola o dell’università.

Raccontava nelle sue memorie Funakoshi Gichin, padre del karate moderno, di aver perduto il conto dei giovani che si recavano a trovarlo per comunicargli che sarebbero presto partiti “per servire il mio Paese e l’Imperatore”. Rievocando gli anni di guerra, il vecchio Maestro scriveva:

“molti dei miei allievi morirono in battaglia, così tanti, ahimè! […] Sentivo spezzarmisi il cuore quando ricevevo bollettino su bollettino che riferiva della morte di tanti giovani promettenti. Allora mi ritiravo solo nel dojo silenzioso ed offrivo una preghiera per l’anima del caduto, ricordando i giorni in cui aveva praticato il karate così diligentemente”.

karate storia
Funakoshi Gichin (sx e dx) mentre esegue tecniche di karate ed il club dell’Università Todai (al centro) negli anni 1925-1929

Poi vennero i bagliori di Hiroshima e Nagasaki, l’umiliazione della sconfitta ed una occupazione straniera meno brutale di altre ma pur sempre portatrice di atrocità in una atmosfera di desolazione, depressione e decadenza. Ma poiché i demoni incaricati della punizione si trasformarono presto in conniventi comparse, il dopoguerra giapponese più che un inferno si rivelò un purgatorio.

Tra le macerie lasciate dai bombardamenti si diffuse il mercato nero, la prostituzione, la criminalità organizzata, il consumo e l’abuso di alcool e droga, il tutto alimentato dalla presenza delle truppe straniere.

La resa incondizionata non fu un baratro nel quale i vincitori scagliarono gli sconfitti, fu più il principio di una cura dai germi malati del nazionalismo imperialista degli anni ’30 che intese scambiare indipendenza e sovranità in un vicino futuro al prezzo di una libbra di carne, di uno spicchio della propria identità. I beni di consumo, l’automobile, la radio, la televisione, la lavastoviglie, la democrazia ed il capitalismo aiutarono a rendere la cura meno amara ma non per questo meno atroce.

Anche la pratica delle arti marziali, insieme a tutte quelle istituzioni considerate come “le radici del militarismo”, fu bandita per qualche anno e molti praticanti e maestri si ritirarono in clandestinità o dichiararono alle truppe, spesse volte conniventi o fintamente ingenue, di insegnare il pugilato e la lotta occidentale. Il Butokukai (l’organizzazione fondata nel 1895 per preservare il patrimonio marziale nazionale) ed altre società segrete paramilitari di ispirazione nazionalista come la Società del drago nero o la Sakurakai, furono sciolte.



Ma fu proprio dalle università che nel dopoguerra riprese la semina, quando i sopravvissuti tornarono dai loro maestri e studenti che avevano perduto i loro maestri durante la guerra tornarono a loro volta da istruttori. Le università giapponesi divennero il terreno nel quale furono coltivati feroci combattenti ed importanti maestri di varie scuole che si sarebbero incaricati di diffondere il karate-do (la “via del karate”) in giro per il mondo.

Da Senshu uscì Taiji Kase; dalla Waseda uscirono Harada, Hironishi, Okuyama, Egami; dalla Takushoku uscirono Nakayama, Nishiyama, Okazaki, Shimamura, Shoji, Kanazawa, Enoeda e Miyazaki; alla Nihon si laurearono Otsuka, Suzuki, Tanabe, Yamazaki, Tateishi, Fuji, Yamashita, Kono; dalla Todai, Hosei e Meiji Ozawa, Ito, Niwa e Ajari. Alcune rivalità divennero leggendarie, come quella tra i club di karate delle Università di Keio e Waseda, qualcosa di simile alla rivalità che esiste tra le squadre di rugby di Oxford e Cambridge.

karate arte marziale
I club di karate della Nihon University (sx) e della Waseda University (dx) negli anni 1940-1950. Nella prima foto, seduto al centro, Otsuka Hironori, fondatore della scuola Wado-Ryu

L’università di Keio, fondata nel 1858 da Yukichi e Fukuzawa, che addirittura appare nelle banconote da 10.000 yen, ha nel campus di Mita a Tokyo il suo principale centro sin dal 1871, anno in cui Fukuzawa spostò lì la Scuola Privata di Studi Tedeschi. La vecchia biblioteca, la cui costruzione fu ultimata nel 1912, custodisce straordinari cimeli di letteratura come i manoscritti di Ota Gyuchi, memorialista di Oda Nobunaga e Toyotomi Hideoshi ed è il luogo davanti al quale si riunivano gli allievi di Gichin Funakoshi per le foto di rito negli anni ’30.

Perché fu proprio a Mita che uno dei primi club di karate fu aperto nel 1924 grazie all’iniziativa di Kinyo Kasuya, titolare della cattedra di filologia tedesca e che si era già appassionato degli insegnamenti di Funakoshi, all’epoca svolti nel Meiseijuku di Tokyo. Insieme a Yasuhiro Konishi, capitano della squadra di kendo, il club dei Keio divenne realtà, anche se in ritardo di un anno a causa del terribile terremoto che distrusse la regione del Kanto del 1923. Funakoshi fu dall’inizio l’istruttore del club e fino al 1928 utilizzò il dojo della squadra di judo. Solo più tardi ebbe a disposizione una piccola sala che, dopo il 1934, i suoi allievi riuscirono a migliorare e ad ampliare. Poiché il dojo di Mita era molto piccolo, per le occasioni speciali Funakoshi continuò ad utilizzare quello del judo ed è proprio lì che furono scattate alcune delle fotografie più famose della storia del karate moderno.

Il club di karate di fronte all’ingresso della biblioteca di Keio negli anni ’30. Seduto al centro, il maestro Funakoshi (sx). La consegna della bandiera del club a Funakoshi nella sala centrale del dojo di Mita (c). L’ingresso al campus di Mita nel 1937 (dx)

In quella sala austera capeggiava un quadro calligrafico dell’ammiraglio Heihachiro Togo dove si poteva leggere: “Coraggio e valore. Sii forte e coraggioso”.

L’ammiraglio Togo, tutore dell’Imperatore Hiro Hito, fu un eroe nazionale durante l’epoca Meiji, vittorioso comandante della flotta che sconfisse i russi a Tsushima ed unico giapponese a ricevere gli onori militari durante il suo funerale da parte di navi da guerra straniere inviate dalla Gran Bretagna, dagli Stati Uniti, dalla Francia, dall’Olanda, dall’Italia e dalla Cina.

Keio è altresì il luogo dove Funakoshi, intorno al 1929, decise di chiamare la sua disciplina Dai Nippon Kenpo Karate e, finalmente, Karate-Dō (la Via del Karate). Influenzato dagli insegnamenti del buddhismo zen del tempio Engakuji di Kamakura, egli sostituì gli ideogrammi che ricordavano l’origine cinese dell’arte di Okinawa con i kanji che suggerivano la ricerca della vacuità, del concetto di vuoto della dottrina buddhista mahayana. Per Funakoshi la diffusione del karate si sarebbe concretizzata solo attraverso una sua legittimazione come Budō, cioè in quanto parte dell’insieme delle arti marziali moderne giapponesi (gendai Budō) intese nella loro accezione etica e sociale prima ancora che guerriera.

la via del karate
Allenamenti nel dojo di Mita negli anni 1930 (sx). Funakoshi dimostra l’uso delle armi del Kobudo di Okinawa (c). Membri del club di Keio impegnati negli esercizi di condizionamento al makiwara (dx)

Il vecchio dojo è oggi occupato da un laboratorio scientifico perché nel 1968, nel bel mezzo delle agitazioni e delle occupazioni studentesche, l’università autorizzò la costruzione di una nuova sala di allenamento annessa al campo sportivo. Dopo la morte di Funakoshi nel 1957, il club di Keio ed il dojo di Mita furono presi in mano da Isao Obata . . .

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