E i media che le alimentano, come nel caso della Supercoppa italiana.
La bufera social è simile a una tempesta di mezza estate: dura poco, fa molto rumore e annoia tutti (o almeno molti). Il problema è che su Twitter, Facebook o Instagram non basta aspettare che la pioggia finisca, perché subito dopo arriverà un’altra bufera e poi un’altra ancora. L’ultima in ordine di tempo ha riguardato un’indiscrezione sulla finale di Supercoppa Italiana, che nel post-pandemia sembra essere tornata stabilmente a disputarsi in Italia, dopo anni di vai e vieni tra Cina, Arabia Saudita e Qatar.
Infatti, sulla scia di quanto fatto la scorsa stagione – quando la Supercoppa si era disputata a Reggio Emilia – la Lega avrebbe ufficiosamente deciso di allocare a San Siro la partita di quest’anno tra Inter e Juventus, confermando la volontà di risparmiare ad entrambe le squadre un viaggio dall’altra parte del mondo (fra l’altro, nel periodo in cui tutti si lamentano dell’eccesso di partite). Tanto è bastato per scatenare la bufera social, in questo caso per mano dei tifosi juventini, risentiti di dover giocare una Supercoppa di fatto in trasferta, dopo nove anni di campo neutro. E così molti giornali si sono messi alla finestra a raccontarci l’ennesima tempesta di mezza estate. Breve, rumorosa e noiosa.
Nulla di nuovo all’orizzonte. Il meccanismo perverso per cui sui social “più un argomento è ignorante, più funziona” è cosa provata dai fatti. O meglio, sicuramente è il ragionamento dominante con cui i media moderni cercano di fare audience, almeno a giudicare dalle scelte dei giornali sportivi, che prima della Supercoppa Italiana erano intenti a raccontarci tutti i dettagli dell’appassionante telenovela tra Wanda e Mauro, e prima ancora delle mezze notizie di calciomercato o dell’ultima sparata di Cassano alla BoboTV.
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La polemica intorno alla Supercoppa, però, è un caso interessante perché racconta di un problema che ha a che fare col racconto del calcio nello specifico. Si tratta del giornalismo che diventa eco dei peggiori istinti dei tifosi, nascondendosi dietro la volontà di raccontare l’ormai arcinoto caos sui social. Nel frattempo, però, la visibilità che si garantisce a questo genere di opinioni finisce per intossicare il dibattito intero – nel caso specifico, quasi suggerendo l’esistenza di un assurdo complotto anti-Juventus pensato per farle perdere la Supercoppa.
È la sconfitta definitiva del giornalismo: alla costante rincorsa dei trend social, costretto ad abbassare drasticamente il livello per accumulare click e reazioni.
Un circolo vizioso da cui sembra non esserci via d’uscita, ma che si fonda su una visione molto limitata. Pur essendo vero infatti che qualsiasi media deve considerare gli interessi del suo pubblico, uno dei compiti fondamentali del giornalismo rimane la selezione degli argomenti da affrontare nel dibattito pubblico. E dovrebbe essere una selezione innanzitutto di merito, che lasci fuori tutti gli argomenti irrilevanti, o peggio, tossici.
Il click prima dell’informazione, le views prima delle letture. Se il giornalismo assume questo punto di vista è normale che a rimetterci sia la cultura – in questo caso sportiva, ma il discorso si può estendere anche ad altri ambiti. E poi un aspetto utilitaristico: così i media sopravvivono, incassano visite, pubblicità e così via, ma ogni giorno perdono un po’ più di credibilità agli occhi di tante persone che cercano contenuti altrove, o che semplicemente smettono di seguirli – e finanziarli – disinteressandosi, un po’ come la gente che non va a votare. Insomma, è questo un modello che tampona la ferita nel breve ma che, alla lunga e con la crisi del settore, rischia di avere pesanti ripercussioni anche per gli stessi media e giornali.
La questione si fa ancora più grave se inserita nel contesto di un calcio sempre più globalizzato, che va compreso e analizzato accettando la difficoltà di certe questioni. Questo vale anche per cose all’apparenza secondarie, come la scelta dello stadio in cui si gioca una finale di Supercoppa. Una finale finalmente restituita alle tifoserie italiane, che rimangono il cuore pulsante del tifo delle nostre squadre – che tristezza doverlo sottolineare. Ma anche una finale che si disputa nel Paese di “appartenenza”, non costretto a scendere a discutibili compromessi con l’Arabia Saudita, il Qatar o la Cina per incassare qualche soldo in più. Perché se il calcio ha ancora un significato simbolico, simili valutazioni entrano necessariamente a far parte del discorso.
Il calcio moderno, insomma, è pieno di sfumature e punti d’ombra. E il rumore dei social fa più danni che altro quando si vuole comprendere perché una dinastia reale abbia voluto comprare una squadra di Premier League, oppure cosa abbia spinto uno Stato a sacrificare la vita di 6500 lavoratori pur di ospitare un Mondiale. Di fronte a questa rinnovata complessità, i media sportivi hanno perso la rotta e quindi il loro compito come primaria fonte di verità, accontentandosi di raccontare la nuova acconciatura del calciatore più cool del momento.
Anche in termini di “business”, se così si può dire, una fetta crescente del pubblico sembra cercare come detto maggiori livelli di approfondimento rispetto a quelli offerti dalla maggior parte dei giornali. Magari questo sarà sufficiente a cambiare l’approccio della narrazione dominante, o magari non cambierà nulla perché nell’epoca dei social non si riesce a fare diversamente. A noi, nel frattempo, non resta che aspettare la fine della bufera.