Dai segni rossi sul viso alla finale di Supercoppa in Arabia Saudita la strada è breve.
Nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario, direbbe (forse) George Orwell. E allora non prendiamoci in giro e assumiamole noi, nostro malgrado, le vesti dei rivoluzionari, che qualcuno dovrà pur dire le cose come stanno. Partiamo dalla fine senza troppi giri di parole: la Supercoppa italiana la disputiamo in Arabia Saudita solo per il facile guadagno, ma così restiamo ancora nell’ovvio. Sappiamo infatti che il Paese saudita ha raggiunto con la lega di Serie A un accordo annuale, con opzione per le successive due stagioni, per un totale di 20 milioni di euro.
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E fin qui va bene, non è certo la prima volta che l’aspetto economico ottiene il primato sull’aspetto calcistico, politico e via discorrendo. Ma se il campionato di Serie A nell’ultima giornata ha improvvisato una campagna mediatica contro la violenza sulle donne, trasformando i calciatori in piccoli capi indiani con quelle patetiche strisce rosse sul viso, allora diventa evidente che c’è qualcosa che non va: portare la Supercoppa Italiana in un paese come l’Arabia Saudita è oggettivamente una contraddizione.
Disputare la finale in uno Stato in cui da pochi mesi è concesso alle donne guidare un’automobile – fatto tra l’altro propagandato da tutti media internazionali come un evento storico – è un paradosso evidente, palese, sotto gli occhi di tutti, e cozza terribilmente con quanto visto questo fine settimana. E ancora, giocare in una Nazione che dal 2015 conduce una guerra spietata contro lo Yemen, con un utilizzo sconsiderato della forza sulla popolazione civile, è un ulteriore controsenso.
L’esito di uno degli innumerevoli bombardamenti condotti da Riyad
Ma perché nessuno, o quasi, parla apertamente di queste cose? Perché della guerra in Yemen non si sa praticamente nulla, quando per altri Paesi del medio oriente basta un niente per servizi strappalacrime e titoloni sui giornali? Ci sarà forse un collegamento con gli oltre 500 milioni di euro che l’Italia ha intascato grazie agli accordi per le forniture militare garantite a Riyad?
O con gli interessi dei cugini francesi, che rifocillano le proprie casse statali con oltre 14 miliardi di euro provenienti dagli accordi militari? O ancora con gli accordi sottoscritti dagli Stati Uniti con l’Arabia Saudita per oltre 100 miliardi di euro? Ebbene tutto ciò rende evidente come il denaro saudita possa comprare il silenzio di tanti, e come possa nascondere quello che è sotto gli occhi di tutti: pecunia non olet, per dirla un po’ alla Lotito e un po’ alla Vespasiano.
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Ma torniamo al calcio: stiamo andando a disputare una finale di Supercoppa in uno dei Paesi più lontani dal nostro modo di concepire la società. Almeno nello sport rimaniamo coerenti, riportiamo il trofeo italiano tra le mura domestiche, rendiamolo magari itinerante fra le province italiane, ridando vita a quello spirito sportivo campanilistico che a noi tanto piace. Finiamola con l’internazionalizzazione del nostro calcio, sono più che sufficienti le coppe europee ed i mondiali. I nostri trofei, dal campionato alla Coppa Italia fino alla Supercoppa, riportiamoli in patria, senza svenderci; o al limite scegliamo Paesi in cui si rispettino i diritti delle donne e ancor prima quelli umani. Ma se infine, nonostante tutto, vi siete proprio fissati con l’Arabia Saudita, beh ve lo chiediamo per favore: risparmiateci almeno la morale.