Nessun compagno si avvicina al punto di battuta. In campo ci sarebbero anche altri specialisti, ma se l’arbitro fischia una punizione all’ultimo minuto di Juve-Inter, il tiratore designato è Paulo Dybala. Lo sanno i telecronisti e i tifosi, lo sa pure lui. Molto spesso, però, i calci da fermo sono una questione di responsabilità più che di tecnica. Dybala si fa dare il pallone, lo bacia, lo mette a terra. Poi calcia alto. Inter batte Juventus 0-1: cronaca di una delusione. Al contempo, metafora efficace per il tramonto infelice del rapporto tra la Joya e la Juventus. Cos’altro ci aspettavamo da Paulo Dybala?
È arrivato a Torino dal Palermo prima di compiere 22 anni. In sette stagioni ha vinto dodici trofei: da gioiello è diventato una stella e da stella un leader, non solo sul piano tecnico. Ha segnato 113 gol in bianconero, uno ogni 167 minuti giocati. È arrivato a un passo dal trionfo in Champions League, lasciando il segno in confronti memorabili contro avversari del calibro di Atletico Madrid, Barcellona e Bayern Monaco. Nonostante ciò, Dybala ci lascia ancora una sensazione di incompiutezza, forse relativa alla grandezza del suo talento. Un po’ come succede quando una punizione si spegne sul fondo, pur essendo consapevoli che segnare un gol non è mai cosa banale.
Però è in particolare quel tiro sballato – in quel momento di quel derby d’Italia – che racconta bene il finale della storia juventina di Dybala. Prima di tutto c’è una caratteristica fondamentale: il suo rapporto solitario con il pallone. Unico e imitabile giusto da qualche altro fuoriclasse in giro per il mondo. Dybala e il proprio talento, tutti gli altri a qualche metro di distanza. Poi c’è la pressione, con le sue contraddizioni. Pressione perché è uno degli ultimi tiri a disposizione della Juve, in una partita da dentro o fuori per le potenziali ambizioni di Scudetto dei bianconeri. Sono aspettative quasi visionarie: persino Allegri da qualche settimana dice in giro che il titolo non è affare per la Vecchia Signora, non questa volta.
C’è un elefante nella stanza della storia di questa punizione. Il 21 marzo i vertici della Juventus hanno reso pubblica la decisione di non rinnovare il contratto di Dybala, in scadenza poco più di tre mesi dopo. Il tiro alto è l’ultimo della prima partita dell’argentino da separato in casa. Tornano in ballo le contraddizioni.
L’a.d. juventino Arrivabene ha dichiarato: «Paulo non era più al centro del progetto e abbiamo preso questa decisione», come se fosse stata una scelta unilaterale. Eppure l’importanza di Dybala per questa Juve è lampante: ad esempio, tutti sanno che la punizione più pesante è cosa sua. Solo qualche mese fa, capitan Chiellini diceva: «Sono sicuro che quest’anno la chiave della nostra stagione sarà Dybala». Come può essere cambiata così tanto in così poco tempo la percezione di un calciatore?
Ecco il nocciolo della questione: la percezione. Nel calcio viene spesso tirata in ballo, ma è un concetto sfuggente. A guardar bene, i risultati degli studi scientifici che provano a misurare la percezione dei migliori calciatori al mondo conducono a risultati patetici (senza offesa per gli specialisti dell’IFFHS, o chi per loro). Il problema è che l’impressione lasciata da un calciatore non ha parametri oggettivi: è innanzitutto un fatto culturale, per chi osserva. Nel contesto del calcio italiano, Dybala è inconsueto. Giocatore imprevedibile in mezzo alla monotonia. Un picciriddu divertito mentre gli adulti sono esasperati dalla noia.
La contraddizione si fa ancora più netta pensando a Dybala come simbolo della Juventus, cioè della più italiana – quindi monotona, noiosa e cinica – fra le grandi del nostro calcio. Ovviamente la realtà è più complessa di così: innanzitutto Dybala al suo meglio è anche un giocatore “aerobico”, parola di Allegri: per caratteristiche è predisposto al sacrificio, presente in tutte le fasi. Analogamente, la Juve ha una tradizione di numeri dieci belli e fragili, cioè è storicamente abituata a convivere con queste incongruenze. Da Sivori a Del Piero, passando per Platini e Baggio: non solo colonne portanti dei trionfi della Juventus, ma anche icone dell’aristocrazia juventina e quindi di tutta la narrazione sportiva atta ad alimentare il soft power della famiglia Agnelli.
Parallelamente, parliamo di giocatori appartenenti a un’estetica del calcio quanto mai lontana dal cuore pulsante dei trionfi della Juventus, quella fase difensiva che diventa questione di vita o di morte. Uno dei migliori interpreti di quest’idea, Chiellini, ha detto che: «Abbiamo bisogno di un qualcosa che ci trascini, di una scintilla che ci dia un qualcosa in più a livello emotivo. L’abbiamo sempre trovata negli anni passati nel difendere: godevamo a vincere 1-0. Poi il 2-0 lo facevano Cristiano, Dybala o Mandžukić nell’ultimo quarto d’ora».
Il ciclo della Juve si nutriva quindi di due anime. Da un lato una fase difensiva spietata ma ottimista, ben rappresentata dall’iconico quartetto: Buffon, Barzagli, Bonucci e Chiellini. Nell’altra metà campo, invece, c’erano talenti delicati ma devastanti, a cui viene richiesto semplicemente di segnare un gol in più dell’avversario. Come se ci fossero due squadre in una. Forse è per questo che, anche nei momenti migliori, Allegri ha fatto dell’equilibrio un mantra da seguire a tutti i costi.
«Dybala lo farei sentire importante, questo sì. Gli farei sentire la fiducia, ovviamente se questa fiducia c’è». Pronunciate nel giugno scorso, queste parole di Del Piero, un altro numero dieci messo alla porta dalla dirigenza della Juve, oggi suonano come una profezia.
Quanto a Dybala, l’implicazione che ci portiamo dietro è fondamentale per rispondere alla domanda da cui siamo partiti. L’impeto del ciclo bianconero di quegli anni ce ne ha fatto dimenticare, ma la Joya e la Juve sono dovuti scendere a compromessi per funzionare insieme. Sin dal modo di stare in campo del ragazzo, arrivato a Torino come formidabile rifinitore, poi costretto a evolversi in “tuttocampista” – altra parola di Allegri – secondo le esigenze di Higuain e soprattutto Ronaldo. Di converso, anche la Juventus ha protetto e sostenuto Dybala nei rari, ma regolari periodi di difficoltà che l’argentino ha trascorso anche nelle sue stagioni di maggiore successo a Torino (le prime tre, per intenderci).
Il tempo ha deteriorato questo rapporto. Come spesso accade nelle storie d’amore, è difficile capire se il peccato originale sia da imputare a Dybala, ai suoi gracili muscoli o al modo in cui è stato gestito – probabilmente è sbagliato a prescindere ragionare in questi termini. I fatti però ci dicono che un altro allenatore toscano aveva scelto di mettere Dybala al centro del villaggio, ottenendo in cambio la miglior stagione in carriera dell’argentino, almeno in termini di prestazioni individuali. Sotto la guida di Sarri, Dybala è stato formidabile tanto nei numeri (un gol o un assist ogni 80 minuti in campo) quanto, ancora, nella percezione – non a caso, quell’anno è stato premiato come MVP della Serie A, osando interrompere il regime del cannibale CR7.
Emerge un’altra contraddizione: Sarri – che dopo il suo esilio da Torino non ha esitato a definire Dybala “un fuoriclasse” – era l’allenatore più lontano che ci fosse dal DNA della Juventus, ma forse il più vicino a Dybala per spirito e approccio verso il gioco. Ironia della sorte, nella partita del definitivo naufragio della Juve di Sarri il fuoriclasse ha potuto giocare solo tredici minuti, piegato da uno dei maledetti infortuni che hanno accompagnato questa decadenza, inquietando la vita di Dybala a Torino. La fragilità della Joya era diventata così fragilità della Juve di Sarri, e magari anche uno dei motivi per cui Agnelli e i suoi hanno preferito proseguire con un’altra guida tecnica.
Il livello che aveva raggiunto con Sarri, allo stesso tempo, ha aumentato le aspettative intorno a Dybala. Lui però non ha più ritrovato quelle sensazioni, né con gli allenatori né con il suo fisico. Dybala è diventato un leader della squadra, ma non è stato abbastanza per tirare la Juve fuori dalla mediocrità di questi ultimi due anni. La delusione nasce da qui, e dalla delusione forse la reazione di allontanamento.
Ad ogni modo, non tutti i mali vengono per nuocere. La Juventus ha già scelto Vlahovic come nuovo riferimento offensivo: un attaccante più coerente con la restaurazione allegriana in atto, come caratteristiche e attitudine. Dybala invece, a 29 anni, ha la possibilità di scegliersi una squadra dove tornare ad essere l’attore protagonista, nella speranza che i muscoli lo accompagnino. La sua eredità a Torino resta enorme, nonostante l’assenza ormai annunciata di un lieto fine. Come diceva De Gregori, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore.