Editoriali
08 Agosto 2025

Il silenzio degli stadi, il rumore delle bombe

Vergognarsi, ad oggi, di essere Italiani.

Italia-Israele, in programma il 14 ottobre a Udine per le qualificazioni Mondiali 2026, non è solo una partita. È il segno tangibile di un doppiopesismo ormai conclamato che riguarda lo sport internazionale, e in particolare il calcio: la disciplina che più di tutte ha il potere di raccontare e rappresentare l’umanità nelle sue contraddizioni. Il ministro dello Sport Andrea Abodi ha affermato che «la partita si gioca, è in programma e si gioca come si è già giocata quella dell’anno scorso, se non sbaglio proprio a Udine». Poi, con una dichiarazione destinata a far discutere, ha tracciato una netta linea di confine tra Israele e la Russia:

“La Russia è un Paese aggressore, Israele è stato aggredito. Forse questo si dimentica completamente”.

Ma cosa dimentica, in realtà, chi parla come Abodi? Israele non è solo “il Paese aggredito”: è, a sua volta, uno Stato che ha attaccato militarmente almeno altri cinque Paesi sovrani nell’arco di pochi mesi (Siria, Libano, Iran, Yemen, Iraq, senza appunto considerare i territori di Gaza e della Cisgiordania) con bombardamenti aerei che hanno provocato migliaia di vittime civili e scatenato tensioni su scala regionale.

A Gaza, l’esercito israeliano ha colpito non solo scuole, ospedali e campi profughi, affamando la popolazione civile e radendo al suolo la Striscia, ma anche luoghi di culto cristiani. Lo scorso 30 maggio, in un presunto errore di tiro – «legittimo dubitare che sia stato tale», ha dichiarato il Segretario di Stato vaticano Parolin – tre persone sono state uccise all’interno della parrocchia cattolica della Sacra Famiglia, l’unica chiesa ancora attiva a Gaza. A ottobre 2023, un altro bombardamento aveva già devastato la storica chiesa ortodossa di San Porfirio, causando una strage di civili.


Il tutto mentre il Tribunale Penale Internazionale ha formalizzato accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti dei vertici israeliani, incluso il primo ministro Benjamin Netanyahu. La Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha parlato apertamente, nel giugno 2025, di “sterminio sistematico” della popolazione palestinese. Eppure, di fronte a tutto questo, Israele resta solo per Abodi un Paese aggredito, da proteggere, da includere, da normalizzare. La cui difesa è legittima. In un altro passaggio, Abodi ha ribadito con fermezza:

“Se non ci fosse stato il 7 ottobre, non saremmo in questa condizione. E se Hamas non si nascondesse dietro la popolazione civile, probabilmente non saremmo in questa condizione”.

Il 7 ottobre, su cui nel frattempo continua a infittirsi il mistero, come giustificazione per tutto, anche per uno sterminio sistematico, una pulizia etnica, un – e ormai su questo converge gran parte degli studiosi internazionali, a partire da chi si occupa di ciò nello specifico – genocidio. Abodi allora con simili parole, già superate e condannare dalla storia, ha preso (o meglio confermato) una posizione vigliacca che non solo finge di non vedere, ma capovolge una realtà fatta di occupazione, sopraffazione, bombardamenti indiscriminati e uccisioni mirate (medici, giornalisti etc.).

Perché in Palestina, da tempo, le immagini parlano chiaro: civili affamati uccisi e feriti mentre cercano cibo, ospedali rasi al suolo, stadi trasformati in centri di detenzione, più di 700 atleti uccisi, infrastrutture sportive (e vitali) annientate. Eppure, Israele continua a partecipare senza ostacoli a ogni competizione internazionale. Nessuna sanzione. Nessuna esclusione. Nessuna voce ufficiale, se non qualche flebile monito europeo, come quello del commissario per lo sport Glenn Micallef, che ha detto che “non ci dovrebbe essere spazio per chi non condivide i nostri valori”.

Un’affermazione sacrosanta, che però si dissolve nella pratica. Al Congresso FIFA di maggio 2024, la richiesta palestinese di sanzioni contro la federazione israeliana è stata ancora una volta rimandata, nell’indagine di una commissione indipendente che ancora non ha prodotto nulla. Nel frattempo, sei squadre israeliane con sede in colonie illegali della Cisgiordania – perché ricordiamolo, gli insediamenti israeliani sono illegali secondo la Corte internazionale di giustizia in quanto violano la Convenzione di Ginevra – giocano serenamente nel campionato nazionale, in palese violazione delle norme FIFA. Nessuna conseguenza.


Il parallelo con la Russia è inevitabile: nel 2022, dopo l’invasione dell’Ucraina, la FIFA e la UEFA impiegarono quattro giorni per bandire la Russia da ogni competizione; quella Russia verso cui abbiamo rilasciato 18 pacchetti di sanzioni. Oggi, invece Israele, responsabile di attacchi militari non solo in Palestina ma anche in Siria, Libano, Iran, Yemen, Iraq, rimane intoccabile. Il motivo? Un intreccio tra alleanze politiche, interessi economici e una certa affinità ideologica tra le federazioni sportive occidentali e quella israeliana. L’inclusione dell’IFA nella UEFA, piuttosto che nella confederazione asiatica, non è una formalità: è la cartina di tornasole di un sistema che tutela i simili e punisce i diversi.

C’è anche il caso dei calciatori. Il nostro articolo dedicato alla sospensione di Atal e Weissman è emblematico, due pesi e due misure. Chi mostra solidarietà per la lotta palestinese rischia la carriera, chi per la guerra israeliana, indossando l’uniforme dell’esercito israeliano e auspicando apertamente l’annientamento e la distruzione di Gaza, continua a giocare, a segnare, a festeggiare. Il messaggio è chiaro: certe morti contano meno di altre. Anzi alcune contano e altre proprio per niente. Se osi dirlo, sei fuori.

Il calcio palestinese, intanto, è letteralmente scomparso, come raccontato in quest’altro nostro articolo. Gli stadi della Striscia sono macerie, le squadre non esistono più, le future generazioni di calciatori sono sotto le tende quando ancora in vita, senza acqua né luce. Mohammed Barakat, 114 gol in carriera, è morto l’11 marzo 2024 sotto le bombe; lo Yarmouk Stadium, dove aveva segnato il suo ultimo rigore, è diventato un campo profughi. E di qualche ora fa è la conferma della morte di Suleiman Obeid, ‘il Pelé palestinese’: giustiziato a colpi di arma da fuoco dall’esercito israeliano mentre cercava cibo per sfamare la sua famiglia.

Nel frattempo la PFA ha perso tutto: uffici, archivi, impianti.

La bandiera palestinese è sparita dal panorama sportivo. E con essa, direbbe Gadamer, è stato colpito anche il suo significato simbolico, l’essere visibile del non visibile. Che senso ha allora questa partita? Onorare una neutralità che è stata violata mille volte? Non si tratta di negare il diritto all’esistenza sportiva degli atleti israeliani, ma di riconoscere che non può esserci sport dove non c’è giustizia.

E se anche volessimo protestare, non potremmo. Perché la protesta, in Italia, è diventata reato. Lo scorso luglio, durante la Como Cup, cinque tifosi, italiani, scozzesi e marocchini, sono stati denunciati e colpiti da DASPO per aver esposto una bandiera palestinese allo stadio Sinigaglia. Otto anni complessivi di divieto di accesso agli stadi, e l’accusa addirittura di istigazione all’odio per un semplice gesto di solidarietà. Si è parlato di provocazione, ma c’è mai stata una sanzione nel caso contrario, quando tifosi hanno esposto, con gli stessi o altri intenti, delle bandiere israeliane?

Il messaggio è evidente: la bandiera palestinese è una provocazione, quella israeliana no. Il simbolo di chi viene sterminato e affamato è una provocazione, quello di chi uccide e condanna milioni di persone all’inferno in terra no. Da nord a sud le cronache recenti restituiscono una sistematica repressione verso chi mostra pubblicamente solidarietà alla Palestina. Persino Gravina, presidente della FIGC, ha scelto di schierarsi con l’inerzia, rifugiandosi dietro un burocratico: “non è compito della Federazione escludere Paesi dalle competizioni internazionali”. Ma lo è, evidentemente, organizzare ancora una volta a Udine una partita ad altissimo rischio simbolico, con l’appoggio del Ministero dell’Interno.


Ma la censura non si ferma qui. Lo sport, in Italia, diventa anche terreno di relazioni internazionali opache. È sufficiente osservare quanto accade da due anni con i playoff della Premier League libica, ospitati in silenzio sui nostri campi da gioco. Ufficialmente parte del cosiddetto Piano Mattei, le finali del campionato libico si sono giocate, e si giocano, a porte chiuse in vari stadi, l’anno scorso tra Avellino, Teramo, L’Aquila e ora Milano. Nessuna comunicazione ufficiale, nessun coinvolgimento mediatico, nessuna trasparenza.

Personalmente, ero presente al Partenio di Avellino, durante una delle gare dei playoff libici dello scorso anno. Ero lì non come tifoso (non possono assistere) ma come giornalista. E sono stato cacciato. I dirigenti dei club e i rappresentanti delle delegazioni libiche non volevano stampa, non volevano domande, non volevano sguardi. Volevano silenzio. Silenzio utile a coprire le presenze scomode, come quella di Abdel Ghani al-Kikli, capo miliziano e indagato per crimini contro l’umanità, ed evitare imbarazzi istituzionali, come accadde quando Saddam Haftar fu allontanato dalla cerimonia di premiazione per non compromettere il governo italiano con una foto politicamente insostenibile.

Il ministro Abodi, in tutto questo, ha avuto un ruolo attivo: missioni in Libia, accordi bilaterali, dichiarazioni d’intenti. Eppure, alla stampa italiana veniva negato l’accesso a uno stadio italiano – come a quella internazionale in Palestina, laddove non possono entrare i giornalisti e chi documenta viene colpito scientemente. Perché lo sport, quando diventa politica, deve essere filtrato, manipolato, gestito. Proprio come avviene oggi con la partita di Udine.

Se inoltre non si può nemmeno esprimere un forte dissenso, se l’unico simbolo che si può sventolare è quello del più forte, allora il campo è già inclinato prima ancora del fischio d’inizio. Questa non è una partita. È una recita in costume, un palcoscenico blindato in cui la neutralità è solo la maschera dell’impunità. E allora no, non si deve giocare. Non così. Non ora. Non mentre un popolo viene cancellato, pure con l’appoggio mediatico, economico, politico e militare di Paesi come il nostro, e chi prova a ricordarlo viene messo a tacere. Non mentre un bambino palestinese cerca un pallone sotto le macerie e trova solo carne bruciata, polvere, sangue.


Fonte fotografia: Ispi – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale


Ti potrebbe interessare

Il Movimento Maccabi tra sport e identità ebraica
Cultura
Massimiliano Vino e Edoardo Ciampelletti
28 Gennaio 2025

Il Movimento Maccabi tra sport e identità ebraica

L'animo sionista dello sport israeliano.
Anwar El Ghazi, in piedi tra le macerie
Critica
Andrea Antonioli
04 Novembre 2023

Anwar El Ghazi, in piedi tra le macerie

Difendere le proprie idee, a costo di tutto.
Forever Pure
Recensioni
Gezim Qadraku
08 Luglio 2017

Forever Pure

La squadra più razzista del mondo.
Il Giro e le sue storture
Altro
La Redazione
07 Maggio 2018

Il Giro e le sue storture

Tra noia, fughe e volate ad alta velocità, il Giro d'Italia convalida la sanguinosa occupazione israeliana nelle terre palestinesi.
Il Krav Maga tempra l’anima d’Israele
Altri Sport
Gianluca Losito
08 Luglio 2020

Il Krav Maga tempra l’anima d’Israele

Un’arte marziale nata sulla strada, divenuta bandiera ideale di un intero popolo.