Mentre in Palestina il calcio muore, la Fifa rimane in silenzio.
Negli Anni Novanta mi affacciavo allo stadio per le prime volte. All’epoca, succedeva una cosa che oggi è un po’ demodé, forse trascinata via dal passare di moda, appunto, di una maniera di parteggiare per la propria squadra più genuina e diretta, addirittura infantile nella sua immediatezza. C’era un coro, uno in particolare, che testimoniava un tifo rettilineo, elementare, ancestrale, bambinescamente brutale eppure categorico, kantiano – lontano da una certa impostata seriosità odierna, tutta sovrastrutturale.
Ogni qual volta un calciatore avversario cadeva in terra, momentaneamente infortunato – partiva un canto generale ritmato dai tamburi e affatto relegato alle urla ritenute più bestiali, cioè quelle delle curve. La gran parte dello stadio gridava:
Mio padre, sornione veteromarxista, scuoteva la testa con divertita disapprovazione quando io, seienne, lo ripetevo a gran voce. Sapeva che è il contesto che determina il testo, che è l’accordo tra mittente e destinatario sul senso delle parole che dà il valore che dobbiamo attribuire loro.
Devi essere sopraffatto, devi rimanere a terra, possibilmente finire sotto terra, devi venire sconfitto; dobbiamo vincere noi quindi dovete perdere, morire voi: mors tua vita mea.
Sia chiaro: erano parole dal profondo senso catartico – l’augurio di morte era sportivo, non biologico. Era la simulazione di una preghiera di chi osserva dall’esterno una battaglia e cerca di influenzarla coi propri vaticini. Insomma: ci ammazziamo per finta sul campo per non ammazzarci davvero fuori dal campo. Giochiamo, come bambini, sapendo che dopo qualsiasi morte c’è sempre la risurrezione della prossima domenica, della prossima partita, della prossima stagione. A questo serve il calcio – a mantenere viva la coscienza di una resurrezione laica in vita.
Ma non è così per tutti. Il problema si pone quando il calcio (sineddoche di gioco d’ora in avanti, in questo articolo) viene meno. Detronizzare il rito calcistico, renderlo impossibile, ha un significato molto più ampio di quello che si crede. Togliere il panem a un popolo è tanto forte quanto togliergli il circenses. La frase di Giovenale ha quasi duemila anni e continua ad avere un’accezione negativa, un retrogusto amaro che racconta un appecoronamento del popolo sotto scacco di chi lo governa. Eppure il concetto andrebbe decisamente ribaltato.
Il circo, il gioco, il calcio, rispondono a una dimensione fondamentale dell’essere umano. La piramide di Maslow, quella scala della psicologia che mette in ordine gerarchico le necessità umane, oggi andrebbe perlomeno ripensata.
Quando il linguista olandese Johan Huizinga introdusse nel panorama della cultura mondiale il concetto di Homo ludens nel 1939, i colleghi lo presero poco sul serio. Quando l’antropologo francese Christian Bromberger pubblicò il primo dirompente libro sul calcio come Etnologia di una passione proletaria nel 1995, gli risero dietro. Oggi, fortunatamente, lo scenario è cambiato radicalmente e anche i contesti accademici hanno mutato opinione sulla liceità di trattare scientificamente argomenti come questi. Il calcio si studia, se ne fanno trattati, saggi – il pallone si è svincolato dalla cronaca per passare alla cairologia.
Sarebbe ora, però, di andare oltre – di fare nostro il passaggio logico che consegue da questo nuovo dato di fatto: se il calcio è importante, l’assenza del calcio è quantomeno pericolosa. Quello che sta accadendo in Palestina, per esempio, non è casuale. Il totale collasso della Striscia impedirà al movimento calcistico di riprendersi per almeno un decennio, stando a quanto dichiarato dal vice-presidente del Comitato Olimpico Palestinese, Nader al-Jayooshi . . .
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