La storia si scrive lontano dall'omologazione.
«L’Italia è un condominio di piattume, di piattole rompicoglioni, insensate e squallide. Insignificanti», tuonava Carmelo Bene, proponendo «in questa acquiescenza, in questo nullismo, in questo bagno di omologazione di Stato» di andare «al di là del bene e del male, al di là della coscienza applicata, al di là della demagogia democratica, al di là della democrazia in tutti i sensi deprimente e depressa». Da queste premesse, e da una simile necessità, si sviluppa il nostro interesse per la tifoseria del Verona fino ad arrivare al suo gruppo portante, Hellas Army. Da qui, la volontà di approfondirne la storia.
Per farlo non possiamo che andare oltre la morale corrente e l’opinionismo da salotto, o peggio da social network. Oltre il facile scandalo, perché come diceva Moravia a Pasolini solo le cose che non si riescono a capire scandalizzano. Oltre, infine, la morbosità di chi vuole alimentare il gossip cripto-fascista (nulla in questo Paese vende di più) e oltre il sensazionalismo di chi ha già confezionato trama e finale di quel servizio/inchiesta/editoriale sugli uomini neri ancor prima che questo sia stato scritto.
Di tutto ciò qui non ci curiamo, come non se ne cura chiunque viva o si approcci veramente al mondo del tifo – laddove il tema politico, in realtà, è sempre l’ultimo ad emergere quando si parla dei veronesi. L’interesse per questi, nel bene e nel male, non è infatti definito dal loro posizionamento o schieramento (come dimostrano storici gemellaggi e ancor prima la reputazione generale della curva) bensì dalla specificità della tifoseria, che si è distinta nei decenni per il suo carattere avanguardista e di rottura, nelle forme e nei contenuti.
Questo vogliamo indagare, e un’epopea nel tifo che, fin dalle sue origini, ha segnato la storia ultras in Italia.
Per ripercorrerla bisogna partire da un carattere, quello veronese, che estremizza i suoi tratti goliardici fino a farli sfociare nella sfida, nell’affronto, nell’esagerazione volontaria; non c’è comunicabilità con i media e allora tanto vale provocare, scandalizzare, perché se alla società dello spettacolo si dà un dito quella si prende pure la mano, poi il braccio, quindi il cuore e infine la gola; più si è titubanti, più ci si giustifica, più in buona fede si prova a spiegare, più gli squali della (in)formazione sentono l’odore del sangue e azzannano, implacabili, offrendo i resti al biasimo dell’opinione pubblica.
La Curva Sud, dal canto suo, giustamente se ne frega, anzi rilancia. È come se tutto ciò – le svastiche e i cori per Rudolf Hess, gli insulti al Presidente della Repubblica e ai meridionali, in passato le dimostrazioni razziste o addirittura i cori contro i morti – fosse una barriera all’ingresso, necessaria schmittianamente per segnare la dicotomia amico/nemico. Un modo per marcare fin da subito l’irriducibile differenza, esasperandola. Una logica da trincea. No one likes us, we don’t care, si potrebbe quasi dire con un’eco inglese, mondo che la curva del Verona è stata la prima ad importare strutturalmente in Italia, spezzando quell’ispirazione sudamericana che ha sempre contraddistinto il tifo nazionale . . .
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