Calcio
03 Ottobre 2024

No one likes us, we don't care

Viaggio nel mondo Millwall e nel popolo degli abissi.

Dalle parti di Millwall, o sei del Millwall o sono guai. E che altro ti potrebbe dire uno dei ragazzi della zona? Alti, robusti, senza peli sulla lingua. Quantomeno se si dà credito ad un accento duro, che rimescola le parole in bocca e sembra sputarle da una fessura strettissima fra i denti. Si dice solo quello che ci passa attraverso dalle parti di Cold Blow Lane, nell’East-End di Londra. E non una parola di più.

Lì dove il Tamigi si piega in una ‘U’ quasi perfetta, intrappolando un lembo di terra che prende il nome di Isle of Dogs. Per qualcuno il lascito di Enrico VIII, che secondo la tradizione vi faceva allevare i propri cani da caccia; più probabilmente la storpiatura del termine “docks”, dovuta alle tante banchine che puntellano quell’ansa di fiume preparandone la fuga verso l’estuario.

Se quelle banchine potessero parlare, ne avrebbero da dire a bizzeffe sul quartiere di Millwall e sulla sua squadra di calcio, ma è probabile che per la riservatezza imparata dalla gente che nei secoli le ha costruite, abitate e avute come sepoltura, se ne starebbero comunque in silenzio.

E se pure vincessero il riserbo, la loro non sarebbe certo una storia di eroi portati in trionfo, ma di bacheche lasciate a prendere la polvere e il fango che insozza i calzettoni fin sopra alle ginocchia. Fare un riassunto del Millwall Football Club è facile: se si escludono due apparizioni nella massima serie tra il 1988 e il ’90, una finale di F.A. Cup (persa) e una rapidissima apparizione in Coppa Uefa, si barcamena tra la seconda, la terza e la quarta divisione per quasi la totalità delle sue partecipazioni a un campionato ufficiale.

Tifosi del Millwall durante il derby contro il Crystal Palace nel replay di FA Cup del 1922

Le sue radici sono profonde e raccontano di un passato che risale al 1885. Dickens è morto da poco, ma l’Isola dei Cani continua a pullulare di anonimi personaggi usciti dai suoi romanzi, che nei cantieri navali della zona battono ferro a ritmi serrati in cambio di un salario da fame. Lì si fabbricano le navi che una volta messe in acqua portano la Union Jack in ogni angolo del pianeta; e lì si raccolgono e smistano le merci d’importazione, come ossigeno da immettere nel sangue di un Paese.

Così, nell’aria resa acre dai fumi di combustione, quell’area diventa il cuore pulsante di una capitale che non sa far altro che espandersi. È la rivoluzione industriale, che attira sempre nuova manodopera e la sistema in alveari di mattone pratici e razionali, in una fitta rete di stradine maleodoranti che la notte diventano per anni il terreno di caccia di Jack lo Squartatore. Orari massacranti, prostitute, condizioni igieniche pietose: è in quest’ambiente che un gruppo di immigrati scozzesi fonda la propria squadra, quella dei Millwall Rovers, che nel giro di poco sarebbe diventata semplicemente il Millwall F.C.

Comincia allora un secolo segnato da gioco duro, campi marginali, rarissime soddisfazioni: la gloria di questa squadra di periferia non si deve affatto alle imprese sportive ma, come amano dire da quelle parti, alla reputazione del club. Una reputazione che deve quasi tutto alla ferocia dei suoi tifosi e che ha dell’incredibile, se si pensa ai risultati in campo: l’almanacco dei londinesi conta meno partecipazioni alla Premier di Bradford e Oxford United, eppure non c’è curva in Europa in cui non siano conosciuti, discussi, e spesso guardati con ammirazione.



Lo stesso stadio di casa col tempo diventa un’icona. Dopo un iniziale nomadismo da un campo all’altro, infatti, nel 1909 i lions si accasano al vecchio The Den – “La Tana”, un nome eloquente per un’arena calcistica, che si protende sul terreno di gioco in un insieme di rette e gradinate che non badano all’estetica e che ospitano la squadra di casa fino al ’93. Se poi ci arrivi come giocatore ospite, dapprima ti trovi incastrato in uno spogliatoio senza luce e senza finestre. E quando esci, invece, t’imbatti in un intero quartiere suburbano che si riversa sulle ringhiere e ti accerchia con un ruggito degno del leone che la squadra di casa porta sullo stemma.

Bianco e blu, giustamente, a ricordo perenne delle proprie origini scozzesi.

Un luogo, insomma, in cui agli avversari viene il dubbio che forse sia meglio non segnare; uno sbaglio di cemento armato e acciaio che diviene presto il punto d’incontro di un’intera comunità. Per quel “popolo degli abissi” magistralmente descritto da Jack London […]

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