Ritratti
11 Luglio 2023

Adriano Panatta, un mito tutto italiano

Tra i circoli e il popolo, tra la rete e la linea.

«Quanto avresti potuto vincere di più se ti fossi allenato con maggiore continuità e avessi fatto la vita da atleta?», gli chiese una volta Daniele Garbo, a Reggio Emilia, davanti a un ottimo piatto di amatriciana. Naturalissima la risposta di Panatta: «Se avessi fatto come dici tu, non sarei stato Adriano Panatta, ma un altro giocatore. Io mi preferisco così e tu?».

73 anni fa nasceva, nella sua Roma, uno dei tennisti italiani più forti e importanti della storia. Adriano Panatta fu un mito popolare, un’icona di stile, il trait d’union fra i circoli borghesi e il tennis del popolo. Quando giocava Panatta il Foro Italico si trasformava, e l’atmosfera diventava tanto simile a quella dell’Olimpico che gli fa ombra. Tennista umorale ed umorista, le sue partite sempre in bilico hanno infuocato i già incandescenti animi degli italiani degli anni 70.

Bello e dannato, ironico, imprevedibile, orgoglioso, presuntuoso. Panatta riuniva in sé il cinismo romanesco di Sordi, il fascino di Mastroianni, l’istrionica eleganza di Gassman, in una commedia all’italiana durata un decennio fra amici, nemici, amori, tragedie sportive e contestazioni nell’Italia degli anni di piombo.


IL SORPASSO


A pochi chilometri dal Foro Italico, fra la polvere e i tennisti della Roma bene, Adriano Panatta muove i suoi primi passi sulla terra rossa. Ascenzietto è infatti figlio di Ascenzio, custode del Tennis Club Plarioli. Dai 14 anni si trasferisce poi alla scuola di tennis e di vita di Mario Belardinelli al centro federale di Formia, la fucina della generazione dei grandi tennisti italiani degli anni 70, fino alla rivelazione: 1970, il ventenne Panatta si laurea a sorpresa Campione Italiano, battendo un Nicola Pietrangeli sul viale del tramonto. È il momento del sorpasso: il nuovo che batte il vecchio, il passaggio di consegne fra i nostri due più grandi.

«Non è che mi accorgevo che il tennis era d’élite. Io ci abitavo, nel tennis».

Da lì in poi è un’altalena, con il suo culmine nel 1976. Panatta riesce infatti in pochi giorni prima a trionfare sulla terra casalinga del Foro Italico, a lui fino a quel momento piuttosto indigesta; e poi al Roland Garros, diventando il secondo e fin’ora ultimo italiano a vincere uno Slam. Un trionfo coronato dal match vinto ai quarti di finale contro Bjorn Borg, sovrano indiscusso a Parigi e vittima di solo due sconfitte in carriera sulla terra francese, entrambe arrivate per mano di Panatta.



L’ingresso nella storia avviene però il 19 dicembre 1976. Nella surreale cornice del Cile golpista di Pinochet Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Antonio Zugarelli conquistano la prima ed unica Coppa Davis azzurra. Una Davis maturata fra le contestazioni in un’Italia profondamente politicizzata, con una gran parte dell’opinione pubblica contraria alla partenza. Una Davis arrivata anche grazie ad una lunga battaglia di Nicola Pietrangeli, capitano non giocatore, che nei mesi precedenti alla finale si trasforma in un vero e proprio politico, aizzando le masse nei salotti televisivi inneggiando alla partenza.

La sublimazione di un percorso iniziato dai quattro da giovanissimi fra i campi di Formia e proseguito nel circuito professionistico. Un gruppo diviso, Panatta e Bertolucci da un lato e Barazzutti e Zugarelli dall’altro. Proprio come quella Lazio di Chinaglia e Re Cecconi che due anni prima aveva conquistato lo Scudetto. Due gruppi diversi nel modo di intendere il tennis e la vita, ma uniti più che mai nel momento catartico della partita.


IL MATTATORE


Che cos’è il genio: è fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità di esecuzione.

Dal film ‘Amici miei’

Solo uno Slam, un 1000, una Davis e qualche torneo minore. A conti fatti ha vinto poco Adriano Panatta. Perché lui è capace di vincere contro il numero 1 al mondo, gli succede due volte contro Connors, o perdere agilmente contro avversari di gran lunga inferiori. Lew Hoad un giorno a Wimbledon gli dice: «Sei una testa di cazzo perché tu questo torneo potresti vincerlo quando ti pare e non lo vinci. Pensaci». Le partite sono sempre in bilico fino alla fine, è il tennista che nell’era Open ha salvato più match point, undici, in una partita vinta. Il carattere sanguigno lo rende poi vulnerabile al suo orgoglio e al condizionamento dell’ambiente.

A Barcellona, in una partita di Coppa Davis, perde di proposito buttando tutte le palle fuori a causa degli insulti dagli spalti, per poi lanciarsi sulle gradinate in una scazzottata a fine partita. Prima della finale del Roland Garros, guardando il suo avversario Solomon, basso e piuttosto brutto allo specchio gli dice: «Ma dai su… guardati bene! Come puoi pensare di riuscire a battermi oggi?». Oppure, nel doppio contro l’Inghilterra, si mette in testa di far “abbassare la cresta” ad uno dei fratelli Lloyd giocando sul suo colpo più forte, il dritto, risultato? Vittoria inglese. (Anche) Questo era Panatta.

“Ero insopportabile.



Ma la grandezza di uno sportivo non si misura soltanto con le vittorie, si misura per la sua capacità di emozionare. Il tennis di Panatta incarna tutto il meglio del tennis d’altri tempi, prima dell’avvento dei bombardieri da fondocampo. La sua è stata una vita vissuta sottorete, all’attacco, fra volèe e tocchi vellutati. Tennista dalla sensibilità unica, maneggiava la palla con delle carezze. Panatta trovava poi la sua forza nella capacità di districarsi dalla rete tattica degli avversari grazie ad un improvviso colpo di genio.

«A Borg non piaceva giocare contro di me perché non gli davo alcun ritmo. Variavo moltissimo e andavo sempre avanti. Con me ogni punto era diverso e lo facevo soffrire con le mie smorzate».

Quando il punto sembrava ormai perso Adriano diventava acrobata, e tirava fuori dal cilindro tuffi, giravolte e traiettorie impossibili, in un gioco simile più ad una danza. Sintesi estrema del suo tennis era la “veronica”, marchio regitrato Panatta, la famosa volèe alta di rovescio in giravolta.

«Io certamente non me la sono rovinata la vita, per vincere».

Ma non solo i giornali sportivi, negli anni 70 Panatta riempiva anche le cronache mondane. Bello e carismatico, ma guai a dirglielo oggi: «Ero caruccio come tanti altri», risponde. Un incrocio fra un divo di Cinecittà e un boss della banda della Magliana, era facile nel cuore della notte trovare Adriano Panatta fra i locali di Via Veneto in compagnia di attori e soubrette. Panatta appassionò gli italiani come personaggio oltre che come sportivo, primo caso in Italia per un non-calciatore.

Il mito panattiano, con i ragazzi che volevano essere come lui, imitandone il ciuffo, e le ragazze con lui. La faccia pulita, la lingua tagliente, la genuina spavalderia e la mai celata passione per le sigarette, di cui fu anche testimonial in un’improbabile connubio fra fumo e sport.


Se si parla di Adriano Panatta non si può far a meno di parlare poi del suo rapporto con i suoi colleghi. Partendo dalla fraterna amicizia con Paolo Bertolucci, compagno di doppio e di mille scorribande. Coppia comica naturale oltre che tennistica, a testimonianza di un rapporto di amicizia vero e profondo. Una carriera fatta anche di rapporto conflittuali, da quello con Nicola Pietrangeli, con contrasti che permangono ancora oggi, a quello con Corrado Barazzutti, in uno scontro che ha diviso l’Italia tennistica. Infine il dualismo con Borg, così simile a lui fuori dal campo e così opposto all’interno del rettangolo.

Adriano Panatta bertolucci

Gli auguri di Adriano Panatta a Paolo Bertolucci, 3 agosto 2022.


Oggi la carriera di Adriano Panatta continua come commentatore, e dietro il microfono conserva lo stesso spirito che lo ha sempre contraddistinto. Alterna finezze tecniche a battute fulminanti, alto e basso, dando vita ad una telecronaca informativa e divertente. Con la sua caustica ironia punge con attenzione i difetti del tennis moderno, dai giocatori monocorde alla mancanza di eleganza. «Ricordo che feci una telecronaca in finale a Parigi quando vinse Wawrinka, e dissi che era vestito come un turista tedesco di Dresda a Milano Marittima. S’incazzarono, ma era la verità».

«Il tennis l’ha inventato il diavolo. Facci caso: è uno sport per nevrotici».

Eternamente disincantato, Panatta se n’è anche andato dalla sua Roma, che definisce «una bellissima signora che dovrebbe andare dal parrucchiere un po’ più spesso e vestirsi un po’ meglio». Lo repelle l’idea di diventare un museo ambulante, quello che resta di un grande tennista. Fugge dal passato, vive il presente con la leggerezza che lo contraddistingue. Rimpianti? A chi gli chiede se gli dispiace essersi fermato “solo” al n. 4 del mondo risponde: «Non vorrei sembrare cinico però no, non me ne frega niente». I trofei? Tutti spariti:

«Non ho più niente. Roma? Persa. Parigi? Persa. La Davis? Mah, ho visto che Bertolucci a casa ce l’ha, io? Boh…».

Vive nell’oblio, nell’aere, grazie a quella che secondo Zarathustra era una delle virtù più nobili dell’uomo: saper dimenticare, senza mai prendersi troppo sul serio. Questo è ed è stato Panatta, imperfetto e geniale, disilluso ed entusiasta della vita; fra l’alto e il basso, fra i circoli e il popolo, fra la rete e la linea. Un tennista che ha cambiato definitivamente la percezione del suo sport nel nostro Paese, e che lo ha fatto grazie alle sue contraddizioni. Perchè, senza quelle, non sarebbe stato Adriano Panatta.

Gruppo MAGOG

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