La classe arbitrale italiana ha bisogno di una rivoluzione.
Questa volta è toccato a Calvarese, domani chissà. Rimane però il problema di fondo: gli arbitri, che andrebbero aiutati – non basta la VAR, salutata dai sostenitori del progresso come i cristiani salutano il Cristo -, andrebbero però anche interrogati, proprio come ad essere interrogati sono i calciatori, gli allenatori, i presidenti e i dirigenti a fine partita. Perché gli arbitri non si presentano mai davanti alle telecamere (che non siano quelle in sala VAR, beninteso)? Perché, anziché dare una spiegazione o provare ad abbozzarne una, l’unica risposta che viene data dall’AIA è quella di squalificare gli arbitri in errore per tot turni?
Gli arbitri che hanno sbagliato torneranno ad arbitrare, ripetendo gli errori che ne avevano momentaneamente sospeso l’esercizio. E il circo mediatico tornerà a commentare i nuovi errori in un loop infinito in cui a perdere davvero il contatto con la realtà sarà chi il calcio lo vede e lo sostiene tutti i giorni: i tifosi, gli appassionati. Non è vero che l’arbitro non è tenuto ad andare davanti alle telecamere, sfatiamo questo mito dovuto ad un’usanza consolidata nel tempo più che ad una vera e propria motivazione di campo. Andare davanti alle telecamere non significa esporsi al pubblico ludibrio, né giustificare le accuse pendenti sul proprio capo, ma confrontarsi, capire, aiutare a (farci) capire. Errare è umano, perseverare – nell’oscurità – è diabolico.
Il punto è che gli arbitri non vivono nel proprio mondo. La VAR, questo obbrobrio del calcio moderno, li allontana ancor di più da una dimensione terrena – in tutti i sensi. In primis perché è assurdo che l’ultima parola spetti a chi guarda la partita, tra uno sbadiglio e l’altro, da una sala chiusa tra tre mura senza tastare con mano quanto accade in campo (ma prendendosi puntualmente la briga di decidere, da quella sala asettica, l’esito del gioco). In secondo luogo perché con la VAR in azione giustificare un arbitro diventa complicato. Per gli addetti ai lavori quanto per i tifosi e gli appassionati in generale. Se in assenza della VAR si andava al bar sport per parlare di malafede, tra il serio e il faceto, con la VAR in campo (si fa per dire) viene difficile scherzare sugli errori.
Quanto accaduto nelle ultime tre settimane, tra le visioni oniriche di Mazzoleni in sala VAR (prima in occasione di Napoli vs Cagliari, poi di Benevento vs Cagliari) e le allucinazioni di Calvarese durante Juventus vs Inter, è semplicemente patetico – nel senso etimologico del termine. Così dal patetico si passa al drammatico, al tragico e in un attimo al tragicomico. Valle a deridere, poi, le parole del presidente Vigorito, che nella follia del discorso sul complotto alle squadre del Sud – per mano della longobarda Cagliari – ci fa però tastare con mano la spaccatura profonda, insanabile, tra giudici (gli arbitri e la VAR) e giudicati (dai presidenti ai tifosi). Il punto è, ancora una volta, che i giudici emettono la sentenza senza farsi vedere, accusano senza mettersi (mai) davvero in discussione. Se lo fanno, come Orsato di recente, è per tornare su un episodio di tre anni prima.
Il rigore concesso a Cuadrado nella sfida di ieri sera è stato come la ciliegina su una torta già dilaniata da decisioni al limite dell’assurdo – come l’espulsione di Bentancur. Così, mentre dall’Inghilterra ci prendono in giro ridendo di certe decisioni arbitrali, nel Belpaese continuiamo a commentare questi errori/orrori per pura indole polemica – per antico spirito di moviola. Il problema è invece molto più profondo e riguarda lo stato di salute, diciamo pure il ritmo del nostro campionato – tra i più bassi in Europa e con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Certamente il problema del nostro calcio è culturale e non riguarda solo gli arbitri, ma escluderli dal dibattito sarebbe un errore gravissimo. Coinvolgerli nel confronto è una necessità non più rinviabile.