Ammettiamolo: se parlando con un amico citassimo di punto in bianco le «bandiere nel calcio», senza fornire alcun contesto, quasi certamente il suo primo pensiero andrebbe agli stendardi di tela che sventolano in curva. Saremmo costretti a precisare: una bandiera del calcio italiano. Spiegando: uno di quei giocatori che siano rimasti abbastanza a lungo nella stessa squadra da incarnarne lo spirito, diciamo 300 presenze con gli stessi colori (numero tondo, vezzo biblico).
Superato un attimo di esitazione e chiarito l’equivoco, il nostro amico, scolando l’ultimo sorso dalla pinta, quasi sicuramente tirerebbe fuori il nome di qualche atleta che ha appeso da un pezzo gli scarpini al chiodo. Se avete almeno cinquant’anni, di una vecchia gloria, come Mazzola o Baresi; se siete più giovani, qualcuno che ha comunque già fatto in tempo a perdere i capelli e magari a trapiantarne di nuovi.
Maldini, Facchetti, Rivera, Pellissier… Col solo scorrere questa lista istintiva, dettata di getto, la constatazione è quasi inevitabile: oggi giocatori simili sembrano sempre più rari. Dopotutto, chiunque sia abbastanza stagionato da ricordare capitan Cannavaro che alza la coppa sotto il cielo di Berlino sa bene che cosa significasse una bandiera – e, ancor meglio, la propria bandiera – per il tifoso di pallone. E ora? La percezione diffusa è che quando eravamo più piccoli ce ne fossero di più, e che avessero un diverso valore, anche solo a livello d’immaginario: i ragazzi erano legati alle bandiere proprio come concetto . . .
Foto di copertina: Andrea Staccioli (Insidefoto), 21.04.2004 (Lazio 1-1 Roma)