Luca De Cerreto
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Calcio
Luca De Cerreto
05 Novembre 2022
San Siro è un pezzo di storia (e di arte)
Spiragli di luce per uno stadio simbolo di una città.
Per quasi un decennio è stata tra le squadre più forti che si siano mai viste. Con una forte identità di gioco, idee chiare che partivano dal settore giovanile, Messi, Xavi, Iniesta e via discorrendo; con uno strapotere economico da fare paura (e invidia) e un sempre più forte appeal internazionale, dato anche dalla vittoria di 4 Champions in meno di dieci anni (dal 2006 al 2015). Ma il Barcellona non ha solo vinto, lo ha fatto strabiliando e spesso dominando le partite, schiacciando gli avversari nella propria metacampo; con un possesso di palla infinito (e a tratti anche un po’ stucchevole), un pressing alto che non faceva respirare gli avversari e interpreti quasi sempre funzionali al sistema di gioco.
Si è trattato di qualcosa che si è visto raramente sui campi di gioco: una squadra frustrante, ossatura della Spagna campione del mondo e due volte campione d’Europa. Sulla scala dei valori della storia ha ridimensionato il Milan di Sacchi e la Juve di Lippi, ha superato l’Ajax e l’Olanda di Cruijff. In generale ha reso provinciale ogni squadra fisica e concreta, priva di una filosofia fortemente identitaria e di un culto dell’estetica; ogni pragmatismo, ogni catenaccio, ogni difesa a tre centrali, ogni stopper, ogni portiere non-costruttore dal basso. Raramente il dogma calcistico ha raggiunto tali vette di “Verità”, di καλοκἀγαθία, come dicevano gli antichi greci:
un qualcosa di bello e nobile insieme, estetica ed etica unite in un tutt’uno indivisibile.
E noi qui dall’Italia – e un po’ da tutto il mondo – a idolatrare il modello Barcellona: dall’allenatore alle sue stelle, dalla dirigenza alla cantera (facendo spesso una grande confusione, e sottovalutando i limiti, le risorse e le peculiarità specifiche di quel modello). Anche perché il carro dei vincitori del Barcellona era un mezzo troppo comodo, con poltroncine di cinema multisala morbide e vellutate come una trama offensiva blaugrana; certo al prezzo, un po’ troppo caro, del non vedere un centravanti che scorna e fa a sportellate con i difensori su un volgarissimo e anacronistico lancio lungo dalla difesa. O un calcio fatto di ripartenze veloci e gioco in verticale.
Come confermato da Guardiola, che lo ha avuto come allenatore, l’identità di gioco del Barcellona deve quasi tutto al proprio padre ideologico Johan Cruijff, da cui derivano il 4-3-3 e il pressing alto, la grande qualità tecnica e il possesso palla, oltre alla volontà di applicare queste teorie di gioco già dai settori giovanili, in stile Ajax. Immenso calciatore, grande innovatore e leggenda del calcio, Cruijff ha però portato con sé in Catalogna anche una buona dose di superbia e tracotanza olandese. Figlio di una cultura germanica convinta di appartenere a una civiltà superiore, alla vigilia della famosa finale di Atene del 1994 contro il Milan, dopo essersi fatto fotografare insieme alla Coppa che doveva ancora giustamente essere assegnata (finì 4-0 per il Milan, per la cronaca), affermava:
«le finali sono sempre state la mia specialità, la paura non so cosa sia. Non vedo proprio come possiamo perdere la Coppa dei Campioni». E ancora: «Il calcio siamo solo noi, il mondo ha bisogno di veder trionfare il gioco offensivo e spettacolare di cui siamo il simbolo».
Alla faccia della modestia. Parole che fanno un po’ eco con la frustrazione di Xavi e del mondo blaugrana, e con la scarsa sportività dimostrata dopo la partita di andata con l’Inter, colpevole di aver vinto grazie al “contributo” dell’arbitro (da quale pulpito) e per di più del peccato originale di essere una squadra italiana e (almeno quella sera) catenacciara; una dimostrazione di scarsa attitudine al saper perdere, e frutto di un pregiudizio di forma, di una superiorità morale, che in Catalogna alberga – malcelata – da anni. Sì perché il Barcellona è una società vincente e gloriosa, ma anche un po’ insopportabile: a maggior ragione negli ultimi anni, a partire dalla posizione da capofila assunta sulla Superlega. Una posizione anche ideologica oltre che economica, elitaria, che rispecchia un certo snobismo assai diffuso tra i propri tifosi.
Gli stessi che ormai fischiano l’inno della Champions League (rigorosamente da quando non la vincono più), che insieme ai dirigenti accusano gli arbitri UEFA di malafede e scarse capacità (anche qui sempre quando perdono, che altrimenti… stendiamo un velo pietoso) e che rivendicano un‘Indipendencia pata negra e champagne dalle mille contraddizioni ideologiche; e lo stesso Barcellona che, coerentemente con le grida di “Llibertat” dell’irredentismo catalano, impedisce ai tifosi dell’Inter al di fuori del settore ospiti di indossare i colori nerazzurri. Per non parlare delle lezioni di moralità sportiva sempre impartite al mondo del calcio, l’esempio sostenibile del proprio modello economico di azionariato popolare, prima di sprofondare in una scandalosa marea di debiti che per chiunque altro (o quasi) sarebbe stata esiziale.
Un’identità a corrente alternata, che poggia sul fondamento di essere “più di un club” e che ha sempre parlato del Camp Nou come più di uno stadio (a ragione, è una cattedrale sportiva moderna) salvo poi ribattezzarlo “Spotify Camp Nou” e inaugurare un progetto con la celebre piattaforma audio che «trasformerà le strutture e l’ambiente del Club in una nuova esperienza-Barça di intrattenimento integrata di livello mondiale», qualsiasi cosa voglia dire. Quindi la storica maglia blaugrana, non più il simbolo di un “popolo”, bensì uno strumento di marketing ritoccabile e rinnovabile come fosse una normale maglietta da vendere (roba che neanche il Venezia); e così, sempre all’interno dell’accordo con Spotify, il Barcellona scenderà in campo con una serie di “maglie uniche” dai rimandi ad importanti artisti internazionali: si comincerà oggi per il Clásico – non una partita qualunque – con il logo del rapper Drake (un gufo stilizzato) disegnato sulle camisetas.
Il rapper Drake con la “sua” maglia, sperando che il gufo non porti sfortuna al Bernabeu…
Insomma, nell’attesa di tornare a vincere (e quest’anno ci sono comunque discrete possibilità), il Barça continua a dare spettacolo, proprio come vuole il suo diktat ideologico. Che siano “remuntade” fallite o identità diluite, acquisti di grandi calciatori o cessioni a super-saldo, debiti spropositati o manovre commerciali ardite e pionieristiche, poco importa. L’importante è muoversi verso la spettacolarizzazione di uno sport che, per definizione, non è spettacolo. Il tutto incolpando sempre qualcun altro dei propri problemi, in primis la Liga: “responsabile della nostra situazione economica”, parola del vicepresidente blaugrana Romeu, e anche della spietata regola che ha impedito al più bel matrimonio calcistico della storia del calcio di perpetuarsi – quello tra il club e Messi.
Ormai d’altronde ci siamo abituati: è sempre il solito, e spesso ipocrita, copione barcelonista. Per questo ogni lamentela verso gli arbitri e verso la UEFA, ogni vittoria catenacciara dell’Inter, ogni fallo di mano di Dumfries in area non fischiato, ogni palo-palo-gol di Lautaro, ha un sapore ancora più dolce: perché è un “cucchiaio di Totti”, così popolare e mediterraneo, all’irriverenza e alla spocchia dell’irredentismo catalano.