L'amaro (non) finale di una storia che avrebbe meritato ben altro esito.
Abbiamo sempre immaginato, a volte sperato, di vedere Leo Messi lontano da Barcellona. Ma era uno di quei desideri di ribellione giovanile, sogni o incubi, proiezione delle nostre inquietudini. La verità è che non ci abbiamo mai creduto davvero. In fin dei conti vedere la 10 blaugrana sulle spalle della Pulce è stata una di quelle certezze su cui poter contare, appigli affidabili in una realtà in perenne movimento.
E invece la bomba deflagrata poco più di una settimana fa ha scosso dalle fondamenta il mondo del pallone. Un terremoto che ha portato con sé uno sciame sismico di utopie e manifestazioni di piazza. Le squadre di mezzo mondo hanno sognato di vestire dei propri colori Messi: dalle opzioni più credibili Manchester City e PSG, le cui dirigenze avranno investito ore riunite a stilare previsionali di bilanci includendo le faraoniche pretese del campione argentino, a quelle più romantiche.
Alla notizia della volontà di Leo di lasciare Barcellona, a Rosario hanno inforcato auto, motorini, biciclette e improvvisato un corteo leproso chiamando a gran voce il ritorno del figliol prodigo, supportato anche dal presidente argentino Fernández. A Stoccarda è stata lanciata una campagna di crowdfunding tra i tifosi per raccogliere i 900 milioni stimati per portare a termine l’operazione di mercato. Non dovessero raggiungere la cifra (e ovviamente non la raggiungeranno), il ricavato sarà devoluto in beneficienza, l’esito più gradito di una vicenda fantasiosa.
D’altra parte, in Catalogna, un popolo piangeva l’addio del proprio eroe, un tassello che si sarebbe aggiunto al dramma Barcelona. Eppure, sebbene la dinamica da fulmine a ciel sereno, nuvole scure cariche di pioggia si potevano vedere già da tempo all’orizzonte. La scelta della Pulce, in questo senso e astraendo dal contesto sentimentale. Era anche comprensibile.
Sarebbe stata, a ben vedere, l’ultima occasione per Messi di provare esperienze di vita differenti dopo una carriera passata tra Spagna e Argentina a condividere una cultura analoga. Avrebbe potuto rappresentare l’ultima grande sfida professionale per un giocatore che ha da sempre vestito solo blaugrana, e soddisfare la necessità di vederlo fuori dal contesto dorato della Catalogna. Magari in Premier League, confrontandosi con uno stile di gioco totalmente differente nel campionato ‘più bello del mondo’ e dimostrando, a chi lo metta in dubbio, di essere davvero il più forte di sempre.
A Barcelona un addio di Messi per quanto sanguinoso è comunque un destino che prima o dopo si dovrà compiere. E in questa ondata di rivoluzione alla Masia, forse era anche un momento in cui un sacrificio del genere poteva risultare accettabile. In una prospettiva di stravolgimento tecnico e investimenti per ringovanire la rosa, alleggerirsi della pesantissima voce a bilancio del contratto di Leo, tutto sommato, sarebbe stato addirittura comprensibile.
Non critichiamo infatti le motivazioni, specie in un calcio che ci ha abituato alle scelte più disparate, ma le modalità. Era davvero possibile immaginare che un sodalizio iniziato vent’anni fa si potesse chiudere per mezzo di un ‘burofax’? Un messaggio certificato, mezzo di comunicazione totalmente ignoto ai più, ma facilmente intuibile quale metodo decisamente spersonalizzato. Certo nell’epoca dei direct, dei WhatsApp, dei tweet e dei messenger tutto questo sembra una conseguenza dei tempi. Eppure è evidente che una notizia del genere avrebbe richiesto un processo totalmente differente. Magari sedendosi a un tavolo come persone civili, analizzando una strategia condivisa.
Non solo la forma, ma è anche la sostanza ad aggiungere incredulità alla vicenda. Perché Leo, insieme al padre-agente, vantava la pretesa di lasciare la Catalogna a titolo gratuito sulla base di una clausola vessatoria scaduta e considerata ormai non più applicabile dalla legislazione spagnola. L’ennesimo affondo di Leo, irrispettoso e poco scaltro. Perché alla Pulce, vincolata da una clausola rescissoria di 700 milioni, proibitiva per chiunque, sarebbe stata consigliabile una negoziazione che potesse soddisfare entrambe le parti, invece che andare a uno scontro frontale.
È possibile che l’atteggiamento del rosarino sia frutto di un contrasto politico che da molto permea i corridoi del Camp Nou.
Bartomeu è ormai l’uomo scomodo, la testa di Giovanni Battista da offrire su un piatto d’argento, e probabilmente tutti vogliono impersonare Salomé, da Messi a Piqué. Ma proprio perché il gioco è politico, Bartomeu non si sarebbe mai potuto permettere di aggiungere un altro fallimento alla sua discussa presidenza: sarebbe stato davvero difficile motivare ai soci l’avallo di una rescissione contrattuale gratuita al giocatore più forte di sempre. E sarebbe stato uno scotto ingeneroso da pagare, forse troppo, quello di essere ricordato come il presidente che ha lasciato andare via Messi. Bartomeu è un uomo solo in tempesta, e sa di non poter mollare il timone. Non ha più nulla da perdere e, fosse anche per la sua sola sopravvivenza, non cederà a nessun braccio di ferro.
Lo scontro era destinato a radicalizzarsi, come testimoniano le minacce di provvedimenti legali contro l’argentino che si è rifiutato di unirsi al gruppo per i primi raduni della nuova stagione. E nonostante risultasse chiaro sin dall’inizio l’intento strategico di Messi – liberarsi alla cifra minore possibile per poter poi lavorare al rialzo in sede di contrattazione con la sua nuova squadra – ci chiediamo se si sia reso conto del danno mediatico che le sue scelte hanno implicato.
Non è giusto né corretto che una lunga storia di successo come quella tra Messi e il Barcelona finisca così. È la nota stonata di un’aria malinconica, una mancanza di riconoscenza verso la società che ha reso Leo calciatore e uomo, curandolo e accompagnandolo nella leggenda del calcio. Un addio così amaro avrebbe i contorni dell’abbandono, per di più in quella maniera, senza salutare ma girandosi dall’altro lato e imboccando un’altra strada.
Probabilmente Leo non sente il peso della bandiera, della leggenda destinata a rimanere legata a una sola squadra. Non è nemmeno un trascinatore, un riferimento caratteriale, come dimostrato anche con l’Argentina. Non è Totti né Zanetti, Del Piero o Maldini, non è neppure Piqué, vero lider ‘politico’ dello spogliatoio blaugrana e simbolo personificato del Més que un club. Ciononostante è l’uomo-simbolo di una squadra e una generazione, depositario di una nobiltà tecnica che paga dazio a una responsabilità sociale obbligatoria. E ora, a conti fatti, tutta questa vicenda ci imbarazza più delle sberle di Lisbona contro il Bayern.
Ora la decisione, comunicata finalmente tramite un’intervista esclusiva a Goal.com da parte delle stesso Leo, fa chiarezza sul suo futuro. Continuare questo anno insieme e liberarsi gratuitamente il prossimo. Uno scenario che era diventato logico e probabile, dopo il ping-pong di minacce legali che avevano alzato il sipario su una battaglia legale non certo auspicabile. Eppure è una decisione inevitabile che forse allungherà l’agonia reciproca. A Barcelona dovranno provare ad amare ancora chi ha voltato loro le spalle, magari pateticamente tentare di adularlo a tal punto da fargli cambiare idea. E nella rivoluzione tecnica che lo aspetta, Koeman ha già tuonato:
«Se acabaron los privilegios en el plantel, voy a ser inflexible» (sono finiti i privilegi, sarò inflessibile)
Un posto in squadra alla Pulce certamente si troverà, non solo per le qualità del calciatore, ma anche per evitare un guerra civile. Ciò nonostante Messi rappresenterà un elemento estraneo nella costruzione di un nuovo Barça, con il rischio di un imbarazzante futuro da separato in casa: purtroppo, essere il più forte non vuol dire anche essere il più intelligente. Perché non sempre le storie hanno un lieto fine, ma tutte devono avere un finale all’altezza del racconto. E questo, francamente, non ci sembra tale.