Tifare blanquiverde è da sempre un'esperienza totalizzante.
Nell’egemonia rappresentata dal duopolio di Real Madrid e Barcellona, nonostante i recenti sprazzi di Atletico Madrid e Sevilla, il rischio è sempre quello di tralasciare alcune tra le più autentiche storie di attaccamento e identificazione presenti in Spagna. È sicuramente il caso del pueblo de Heliòpolis, i bèticos, e il Real Betis Balompié (guai a chiamarlo Betis Sevilla).
Proprio in quel termine, balompié, si racchiude fin da subito un carattere distintivo. Gli studenti che fondarono la squadra – inizialmente chiamata Sevilla Balompié – decisero infatti di coniare un nuovo termine per riferirsi al gioco del calcio; non si sarebbero così identificati con il termine inglese allora in voga, Football, peraltro già in uso dall’altra squadra della città andalusa, il Sevilla Football Club.
L’appartenenza invece la dimostrano semplicemente i numeri e le circostanze. Come quando nel 2014, dopo la catastrofica stagione che portò il Betis a una sciagurata retrocessione, il popolo verdiblanco raggiunse la cifra record di oltre 33.000 abbonamenti per seguire la squadra in Segunda Divisiòn: numeri letteralmente incredibili, superiori addirittura alla stagione precedente, in cui pure i biancoverdi si godevano il palcoscenico dell’Europa League. Da qui dobbiamo partire, se vogliamo parlare del Betis.
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È un attaccamento che arriva da lontano, quello del Betis con i suoi tifosi. In primis, per essere una delle uniche nove squadre di Spagna a vantare un campionato di Primera Divisiòn nel suo palmarès: la vittoria del campionato, tutt’ora il massimo trionfo raggiunto dal club sevillano, arriva infatti nel ’34-’35 appena qualche anno dopo il primo trionfo nazionale, la Copa del Rey.
In quegli anni, sotto la guida di mister Patrick O’Connell, il Betis ha vissuto i migliori anni della sua storia. Necessaria la menzione di alcuni dei beniamini dell’epoca, come l’esterno Pedro González Sánchez (o semplicemente “Timimi”), il bomber Unamuno e la coppia difensiva, anche della selección, composta da Aedo e Areso.
Appena cinque anni più tardi, si verifica forse l’evento più significativo nella storia del club. Con lo scoppio del conflitto mondiale, al termine della stagione ‘39-‘40, il Betis si trova in crisi economica ed è costretto alla retrocessione dopo aver rappresentato, nella decade precedente, un esempio di successo. La debacle porta i biancoverdi a scomparire dai radar del calcio professionistico. Nel 1947 arriva la retrocessione in Terza Divisione, ma è proprio questa tappa che riunisce il popolo betico attorno alla squadra in modo definitivo.
“¡Viva el Betis manquepierda!” (Viva il Betis anche se perde) diventa quasi un motto nazionale dopo che Martìnez de Leòn, scrittore e disegnatore dell’epoca, fa pronunciare questa frase a uno dei personaggi dei suoi fumetti dopo la recente retrocessione.
Viva el Betis, perché la afición betica, nonostante tutto, nonostante le sconfitte, manquepierda, non viene mai a mancare. Lo stadio è sempre colmo e la tifoseria comincia a distinguersi per le sue “marchas verdes”, parate contornate di simpatizzanti e tifosi rivali che porteranno al Betis l’etichetta di “equipo del pueblo”.
Dopo anni tormentati, e dopo aver conquistato le simpatie di mezza Spagna in terza divisione, il Betis torna tra i professionisti nel 1954 e approda nuovamente in Primera nel 1958. In un copione di natura quasi teatrale, il ritorno tra i grandi concede un terzo attodegno dei migliori drammaturgi: siamo a Sevilla, tra le mura del Ramòn Sànchez Pizjuàn. Quello stesso giorno si inaugura il nuovo stadio con un derby.
Calcio d’inizio, appena 2’ e Luis Del Sol fa esplodere il popolo betico con il gol del vantaggio. Ma, sul finale del primo tempo, arriva prima il pareggio di Szalay dal dischetto e poi la sentenza di Dieguez, con il raddoppio ad anticipare il riposo. Il morale resta alto, lo spirito è il marchio di fabbrica blanquiverde del resto. Dopo 7’ nella ripresa, la firma di un altro ungherese, Kuszmann, riporta in pari il discorso. Poi al 70’ sono ancora i biancoverdi a esultare per il nuovo vantaggio di Areta, e per il bis di Kuszmann qualche minuto più tardi. Al novantesimo, il tabellone parla chiaro: Sevilla F.C. 2-4 Real Betis Balompié. Il popolo betico è di nuovo grande tra i grandi.
Sempre a cavallo tra anni ’60 e ’70, sotto la presidenza illuminata di Benito Villamarìn (a cui è dedicato l’impianto attuale) avviene la ricostruzione dello stadio di proprietà e l’arrivo al calcio internazionale con la partecipazione alla Coppa delle Fiere. Alla fine del ciclo decennale di presidenza tuttavia, quasi rimanendo fedeli a un duro accordo di amore anche nella cattiva sorte, la tifoseria si trova nuovamente a sostenere i suoi beniamini in Segunda Divisiòn.
Il Betis riconquista la prima categoria a metà anni settanta per riperderla inspiegabilmente nel ’78, l’anno dopo aver conquistato la sua terza Copa del Rey. Ma la traiettoria non fa che confermare un’altalena di prestazioni, tanto irrazionale quanto affascinante, che dipinge in modo preciso il legame altrimenti astratto nel sentimento betico. Gli anni ’80 iniziano nel migliore nei modi, addirittura con la riconquista dell’Europa per due volte (1982, 1984), prima di proseguire con una nuova sciagurata gestione economica che culminerà con la crisi del 1992.
A questo punto viene scritta l’ennesima, meravigliosa storia d’amore tra el pueblo betico e i suoi rappresentanti in campo.
Con un debito di 1200 milioni di pesetas da coprire per potersi iscrivere al nuovo campionato di Segunda, la tifoseria decide di intervenire in soccorso della propria squadra. In appena tre mesi raccoglie 400 milioni di pesetas attraverso piccole donazioni spontanee, una cifra impressionante che, in quegli anni, avrebbe coperto quasi interamente il capitale sociale di gran parte dei club di primera e segunda.
Grazie allo stanziamento di questa cifra si fa avanti Manuel Ruiz de Lopera, che decide così di coprire l’importo restante e diventare il nuovo presidente del club sotto la nuova disposizione societaria, tipicamente spagnola, di Sociedad Anonima Deportiva; la storia si concluderà nel 2010 con le dimissioni di Ruiz de Lopera portato in tribunale per l’ennesima gestione “problematica” del Betis, ma non è questo il punto. Nonostante tutto, nonostante gli scandali economici, i risultati sportivi precari, le aspettative, la aficiòn è sempre rimasta lì.
Se una persona più di altre è in grado di incarnare quanto scritto in queste righe, questi risponde senz’altro al nome di Joaquin Sanchez. Certo, ci sarebbe da parlare di altri giocatori passati tra le fila del Betis. Giocatori nati per innamorarsene, come Finidi, Denilson o Alfonso Pérez, così come potremmo trattare di altre bandiere e pilastri quali Esnaola o Gordillo. Scegliamo Joaquìn perché semplicemente rappresenta il meglio di entrambi i gruppi.
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Entrato nel calcio che conta con la camiseta blanquiverde cucita addosso, stupendo tutta la Spagna fino a sollevare una Copa del Rey con il Betis, verrà poi ceduto al Valencia per una cifra che rappresentò alloea un record di incasso. Dopo le parentesi tra Valencia, Malaga e Fiorentina, come un figliol prodigo, Joaquìn torna però all’ovile con un accordo arrivato, neanche a dirlo, all’ultimo giorno in chiusura di mercato.
“Ogni volta si avvicina sempre di più la possibilità di ritornare a Siviglia, è la cosa che voglio di più al mondo”
Joaquin, già ai tempi di Firenze
Il ritorno a casa è da star: Estadio Benito Villamarìn vestito a festa e più di 20.000 beticos ad attenderlo e cantare per lui. L’amore, se mai si fosse assopito, esplode con la stessa pasión di quindici anni prima. Decisivo in ogni presenza assieme all’altro betico de sangre Ruben Castro, il più grande marcatore della storia del club, Joaquin diventa il secondo giocatore per presenze (e, se il fisico lo concede, potrebbe presto divenire nel primo). Il sigillo più significativo del recente passato è proprio nel derby di Siviglia del 2018: gol vittoria subentrando dalla panchina ed estasi collettiva, per un altro terzo atto di tradizione teatrale tipicamente betica.
Qualche anno fa, proprio Joaquìn, ha deciso di acquistare il 2% del capitale sociale del club per poco più di €1M diventando così il quarto azionario del club. Stando alle fonti che arrivano dal suo circolo ristretto di amici, sembra che un futuro da dirigente nella società non sia un’ipotesi così azzardata. Un passaggio di testimone quasi naturale per chi i colori biancoverdi li ha vissuti tra gli spalti e in mezzo al campo. Un passaggio di testimone identico a quello che, di generazione in generazione, continua a trasformare il tifo blanquiverde in un vincolo indissolubile tra una squadra e la sua gente. Che vinca o che perda.
La vita di Saúl Ñíguez è un diario pieno di dolore, rivincite e finali perse. A 22 anni però sembra già pronto per aggiungere pagine nuove e decisive alla sua carriera.