Il gesto tecnico che riassume la bellezza del calcio.
Se ci si attiene al fonema, alla sua fredda definizione, dovremmo rimandare il lettore a Treccani, che ne indica la sintesi più corretta: “dribbling ‹drìbliṅ› s. ingl. [der. di (to) dribble: v. dribblare], usato in ital. al masch. – Nel gioco del calcio, manovra individuale dell’atleta che consiste in leggeri tocchi del piede, dati rapidamente al pallone, per portarlo da destra a sinistra o viceversa, così da ingannare l’avversario e scartarlo velocemente.”
Ma, da appassionati del gioco, descrivere questo gesto con un semplice esercizio filologico sarebbe intellettualmente disonesto. Un affronto che nessun lettore dovrebbe essere tenuto a sopportare. In ogni competizione vincere è l’obiettivo ultimo, certo. Ma esistono dei piaceri che trascendono la vittoria, che si manifestano nel gesto tecnico, in un senso puramente estetico.
Uno di questi piaceri, per gli occhi e per il cuore, si chiama dribbling. Del resto, come si possono ridurre al mero pragmatismo i fiati sospesi per le giocate da circense di Ronaldinho, gli occhi di meraviglia dopo una ruleta di Zidane, gli applausi a scena aperta dopo uno slalom di Messi?
Il dribbling possiede implicitamente una componente di sberleffo agonistico, insinua nell’avversario il timore subconscio che possa accadere ancora, mette in allerta interi sistemi difensivi. È l’emozione che si manifesta nel vincere la propria battaglia, anche se si dovesse perdere poi la guerra.
Si può esultare fino a piangere per un gol brutto, fortuito, di carambola, ma vedere un centrocampista uscire dal pressing di cinque avversari con due finte di corpo resterà sempre il motivo per cui ci si è innamorati di questo sport. Un doppio passo, la finta di tiro, un elastico, chi ne ha più ne metta: fantasia al servizio della concretezza.
A livello tattico saltare l’uomo è, oggi come un tempo, fondamentale per creare quella che viene comunemente definita superiorità numerica. Ogni sforzo nell’uno contro uno dovrebbe essere rivolto alla creazione di un pericolo per la squadra avversaria. Questo, almeno, secondo gli allenatori. Perché il dribbling ha il potere di essere superfluo, vano, insensatamente rischioso. Si tratta semplicemente di affrontare l’uomo per il gusto di farlo; di superarlo, aspettarlo e puntarlo ancora, solo per il piacere sfidarlo nuovamente.
Nell’estetica del calcio moderno il ruolo del dribbling ha cambiato forma, perdendo molta della centralità che ha avuto in passato a favore di una sempre maggiore fisicità e di una tattica esasperata. Siamo passati dai “leggeri tocchi del piede, dati rapidamente al pallone per portarlo da destra a sinistra o viceversa” alle lunghe falcate di atleti che rasentano la perfezione fisica. Possiamo ad esempio dire di aver mai assistito a un dribbling per definizione da parte di un giocatore come Gareth Bale?
Non fraintendiamoci: la predominanza fisica, di cui il calcio moderno è ormai saturo, è caratteristica da ammirare in ogni atleta. Ma non c’è corsa spalla a spalla o scatto da centometrista che potrà mai muovere le stesse corde emotive di un tocco di suola e di un difensore che capitola sulla finta di corpo per il cambio di direzione. Il dribbling è la sublimazione del gioco, un gesto che associa doti tecniche, atletiche, agonistiche. Controllo di palla, del proprio corpo, delle mosse dell’avversario. Riflessi, rapidità di gambe, fantasia.
Saremo sempre quelli che aspettavano le pubblicità sportive per imparare i nuovi numeri dai nostri idoli, per scoprire il nuovo colpo su cui perdere i pomeriggi, la nuova mossa da allenare. Saremo sempre quelli che da piccoli scartavano gli alberi e le piante in giardino, provavano a fare il tunnel alle sedie in salotto, se ne andavano in doppio passo tra i corridoi.
Chiamateci romantici ma continueremo ad innamorarci del superfluo, di chi nasconde il pallone, dei giocolieri, dei difensori che vanno al bar sulla finta di corpo, degli avversari che non riescono nemmeno a compiere fallo dopo aver ricevuto il tunnel; soprattutto in questi tempi brutti e veloci, in cui il risultato e il profitto la fanno da padroni. Perché il calcio e la vita vogliono anche l’estetica e, parafrasando Ernst Junger, sono gli animi volgari a diffidare della bellezza.