Riflessioni oniriche in onore di David Bowie, che avrebbe compiuto 74 anni.
C’è un’onda lussureggiante che lega un gracile pargolo nato a Londra l’8 gennaio del 1947, a un altrettanto scricciolo che vagisce per la prima volta a Fuentealbilla l’11 maggio 1984. Tale raggio di potenza culturale è racchiuso nell’assioma del principe punk degli strutturalisti francesi, Jacques Lacan: «L’amore è dare qualcosa che non si ha a qualcuno che non lo vuole».
Il primo nascituro: biondo, occhi cerulei (ma cangianti), jazz nell’anima, si chiama David Robert Jones. Per una serie di milioni di amici è conosciuto come David Bowie. Il secondo: castano, occhi neri (come le sponde della sua amara terra), jazz nell’anima, si appella Andrés Iniesta. Per una schiera di milioni di amici e nemici è conosciuto come Don Andrés.
Perché il discorso psicanalitico di Lacan a intrecciare due destini dalla cifra artistica maestosa? Bowie diventa una glam-rockstar, bagnato di folk e pop, e spinto nella tempesta del successo grazie a uno stile camaleontico, un po’ beat generation, un po’ Conte di Montecristo. Ma non ha il fisico della rockstar, non è prorompente come il James Dean in Gioventù Bruciata. Propone avanguardia musicale allo stato puro: a braccetto con dei colleghi caleidoscopici come Lou Reed, Iggy Pop e i Velvet underground, cerca di soffiare amore nelle orecchie di chi vuole ancheggiare senza un domani. Progressive e dance rock, antipasti gourmet di punk elegante, sguardo da duca e sangue da jazzista. Ma le orecchie di un popolo vastissimo sono sempre spigolose al primo ascolto e spesso le debolezze interiori di un artista vengono rispedite al mittente.
A Don Andrés da piccolino consigliavano di stare sui libri e di non praticare il calcio, poiché il suo fisico era leggerino. Negli anni in cui Frank Rijkaard e Lothar Matthäus bullizzavano i centrocampi di tutta Europa, la ricerca della forza fisica è il mantra principale del football altamente performante. Iniesta non ascolta i parrucconi di turno, indossa le scarpe comprate dal suo papà muratore con i soldi della dura giornata e riscrive la storia della Spagna sportiva.
Trame di passaggio palla a terra alla Henri Houdini, sesto senso di gioco da radar teutonico, profumo d’incenso sull’erba da lui solcata. Eppure lo spettatore gli critica talvolta l’inefficacia di pensiero, con il tiqui-taca – da lui spesso diretto – a finire sotto accusa. Anche i suoi fratelli di sangue Xavi e Fabregas ne soffrono.
Ecco, un visionario della musica e un visionario del calcio accomunati dallo stesso destino: partire in sordina, a fari spenti, avendo i molti contro. Eppure essi ribaltano i manuali della leggenda e senza mezzi fisici dominanti, conquistano la scena grazie a sinapsi razionalmente irrazionali.
Due eventi epicamente esistenzialistici li fanno addirittura incontrare. 1972, Bowie racconta in Starman di un affascinante “uomo delle stelle” che vorrebbe parlare con lui negli angoli più splendenti del cielo, al riparo dal volgo omologato. 6 maggio 2009, Stadio Stanford Bridge di Londra, il glam-punk rocker ritrova quell’accecante personaggio cantato: è Andrés Iniesta, che dalle nuvole spente atterra sulla città Natale del duca. Al novantunesimo minuto di Chelsea-Barcellona, l’artista desiderato esegue l’”iniestazo”, come fosse il violino di Starman, all’incrocio dei pali, con tocco degno dei killer di Simenon. Assolo glam-rock d’esterno destro, dal limite dell’area, che spedisce i cules tra gli astri fiammeggianti.
Non è l’ultimo incontro tra le armonie di Bowie e le eufonie di Iniesta. Accade ancora. 1977, Il duca bianco regala al mondo la sua prodezza più grande: Heroes, scagliato nell’omonimo album. «We can be heroes, just for one day». Una speranza immortale iniettata nelle vene dei sognatori di tutto l’emisfero.
Non serve aggiungere altro
11 luglio 2010, Johannesburg, casa Mandela, arriva il secondo incontro. Ultimi istanti dei tempi supplementari della finale mondiale tra Olanda e Spagna. Paura soffocante, clima surreale, qualche miliardo di viventi all’ascolto: il risultato non si sblocca. Don Andrés sente riecheggiare nei timpani la voce epicamente calda di Bowie: aggancia la palla in area di rigore con il destro, con lo stesso piede sferra un colpo fulmineo al volo: goal nazionale, perla mondiale, l’eleganza semplice al potere!
Il cerchio si chiude. Chi respingeva la loro arte – che non avevano e che il mondo non voleva – si riscopre totalmente dipendente da essa. David Robert Jones, l’artista europeo più essenziale ed elegante del Novecento. Andrés Iniesta, l’artista europeo più elegante ed essenziale del Novecento. Si sono incontrati due volte, creando incontrastata immensità. Ma nessuno lo sapeva. Tra le loro note verticali – o movimenti sinuosi, fate voi – si celano i baffi profani del pennello di Buonarroti.
Il costo dei biglietti cresce a tassi doppi rispetto quello degli stipendi o del costo della vita. Anatomia di un problema che attanaglia il calcio moderno.