Il nostro calcio è in ripresa, ma è lungi dall'essere sano.
Vedere Alessandro Nesta e Francesco Totti scambiarsi i gagliardetti prima del derby è un ricordo che solo pochi eletti possono custodire nel proprio cuore. Due fuoriclasse, due romani, due simboli della stessa città. Amici fuori dal campo, acerrimi nemici durante i novanta minuti. Soprattutto, due italiani. Bandiere di una Serie A quasi sconosciuta ai nostri occhi.
L’ultimo derby di Roma (26 gennaio 2020) ha come schiarito le nubi che il nostalgico, lontano dalla terra ferma, confondeva con quest’ultima. Il ritorno non ci sarà più; l’orizzonte è il mare aperto. Poco prima dell’inizio della partita Edin Dzeko e Senad Lulic assistono sorridenti al lancio della monetina; i due capitani, compagni di nazionale con la Bosnia, non si rendono conto dell’unicità di quanto sta accadendo in quegli istanti. Idem i tifosi, giustamente alle prese con coreografie, sfottò di ogni sorta e tensione pre-partita.
Certo, va detto che la Lazio è dai tempi di Mauri che non ha un capitano italiano; per quanto riguarda la Roma invece, dopo l’epopea Totti e De Rossi, Florenzi e Pellegrini non sembrano essere all’altezza del grado. In ogni caso l’immagine di una stracittadina capitanata da due giocatori stranieri ci ha incuriositi, al punto da spingerci al di là dello stupore momentaneo.
Il nostro calcio, certamente in ripresa sia dal punto di vista della Nazionale sia da quello del campionato di Serie A, soffre di un male specifico e statistico: non tanto l’abbondanza degli stranieri – le cui cifre, come vedremo, non sono certamente irrisorie – quanto la penuria dei giovani, e con ciò intendiamo dire: dei giovani che giocano con regolarità.
«Non ci sono mai stati così pochi italiani che giocano, è il momento più basso da questo punto di vista».
Già agli albori del proprio mandato da commissario tecnico della Nazionale, Roberto Mancini dichiarava senza troppe ambagi: «Non ci sono mai stati così pochi italiani che giocano, è il momento più basso da questo punto di vista». Il corsivo è nostro e ha l’obiettivo di dare il giusto peso alle parole del ct azzurro. Il problema del calcio italiano non è tanto – o meglio, non è solo – l’abbondare degli stranieri, ma lo scarseggiare del proprio talento nazionale.
Ci si potrebbe chiedere, come pure è stato fatto, se a venir meno, più che il coraggio degli allenatori, non sia la qualità dei giovani italiani. La domanda è lecita, ma si fonda su un pregiudizio. Chi l’ha detto che un giovane sia forte subito? Che idea abbiamo, noi, del giocatore forte? Prendete Lazzari, o Acerbi, due grandi protagonisti di questa Serie A, entrambi non proprio giovanissimi (il primo è classe ’93, l’altro è classe ’88), ma entrambi cresciuti col tempo, partita dopo partita.
«Totti e Del Piero a 20 anni già giocavano titolari nelle proprie squadre».
Sì, ma erano Totti e Del Piero. Fuoriclasse, cioè fuori dalla norma, anche di quei giocatori normalmente considerati “forti”. Il monito di Mancini non è un grido lanciato in una stanza vuota, ma una richiesta d’aiuto per il nostro calcio. Se gli allenatori provassero a buttare in campo i frutti del nostro vivaio con maggiore frequenza, anziché limitarsi a farli esordire in situazioni o inutili – a partita risolta – o estreme – a partita compromessa –, forse “i giovani” verrebbero fuori. Se una pianta si espone al sole, può crescere. Ma se non è alimentata dall’acqua, muore.
Zaniolo, da questo punto di vista, è certamente un caso enigmatico. Chiamato alle armi della Nazionale prima di esordire in Serie A con la Roma, il talento giallorosso è il paradosso vivente di questa situazione. Senza discutere le indubbie qualità del calciatore, siamo sicuri che dietro alla convocazione di Roberto Mancini si nascondesse un messaggio forte e chiaro.
A più di due anni di distanza dall’inizio del suo mandato, il bilancio è senz’altro confortante. L’Italia è una squadra che si presenterà ai prossimi Europei con una rosa competitiva, affamata, giovane. Ma inesperta. Giocatori come Sensi, Barella, Donnarumma, Acerbi, Lazzari, Belotti, Immobile, non hanno esperienza a livello internazionale. E questo alla lunga può risultare un problema. Questo, soprattutto, ci separa incommensurabilmente dalle rose delle altre nazionali, dove “i giovani” sono giocatori già affermati a livello internazionale. Qui non si discute tanto del valore, lo ripetiamo, ma dell’esperienza di certi giocatori, anche forti, in ambito europeo.
Che poi almeno giocassero, gli italiani, in Italia! Non si parla a sufficienza del dato relativo agli stranieri impiegati dalle squadre di medio-bassa classifica in Serie A – quella zona del tabellone che, tanto per intenderci, all’estero è garanzia di talenti speranzosi di mettersi in mostra dinnanzi alle grandi della classe.
Pensate soltanto che delle ultime sette squadre del campionato (alla 24a giornata), solo il Lecce e la SPAL (ultima in classifica) presentano in rosa una percentuale di italiani maggiore a quella degli stranieri. In Serie A, su 516 giocatori totali, 309 sono stranieri (il 59,9%), contro il 53,3% della Bundes e il 40,5% della Liga. Solo la Premier fa peggio di noi, con il 64,8%. Da notare, nella tabella sottostante, come due delle squadre più forti del nostro campionato (Atalanta e Juventus) siano anche quelle con la percentuale di stranieri più alta. Lasciamo ai curiosi il link sulla percentuale degli stranieri impegnati e la loro partecipazione ai gol stagione per stagione.
È il 23 aprile del 2016 e al Meazza si gioca Inter v Udinese. Per la prima volta nella storia della Serie A, dei 22 uomini scesi in campo dal primo minuto nessuno è italiano. Se entrambe le società, però, vuoi per tradizione – Internazionale, nomen omen – vuoi per storia societaria – Giampaolo Pozzo, maggioritario anche del Watford in Inghilterra e fino a poco tempo fa (2016) del Granada in Spagna, muove le rose dei due club come pedine del Risiko –, se dunque sia Udinese che Inter, da sempre, adottano una filosofia globalizzante, non vale lo stesso discorso per la Juventus di Agnelli.
Il calcio è cambiato. Gli interessi in ballo non sono più quelli di dieci anni fa. L’impatto “social” dei club non è un fattore secondario, come non lo è l’espansione del brand a livello globale. Se tutto questo è vero, però, non si deve dimenticare l’importanza calcistica – dunque economica – che il Made in Italy ha rappresentato per la Vecchia Signora, la Juventus, da sempre.
Giunta al proprio splendore con la BBC (di Barzagli, Bonucci e Chiellini, protetti da Gigi Buffon, muraglia bianconera e muraglia azzurra), oggi la Juventus, nella formazione titolare, aspettando il rientro dell’acciaccato e non più giovanissimo Chiello, schiera un undici totalmente straniero, eccezion fatta per Bonucci. Perin ha preferito regredire anziché marcire – e come dargli torto –, Bernardeschi è ormai niente più che un nome (magari non solo per demeriti suoi…) e Luca Pellegrini, preso dalla Roma nella scorsa estate, è stato ceduto in prestito al Cagliari per un’altra stagione.
Perin, Bernardeschi, lo stesso Rugani, e al Milan Romagnoli, Conti, Caldara – ora a Bergamo: tutti giocatori che, pur nelle ovvie differenze, hanno in comune uno stesso fattore, il declino. Sia chiaro, il declino è relativo. In Italia la tendenza all’esagerazione e all’esasperazione dei valori non è che un sintomo dell’enorme carenza di talento che il giornalismo nostrano, giocando coi sentimenti e le tasche degli appassionati, prova a nascondere gridando scriteriatamente al “fenomeno”, al “fuoriclasse assoluto”, al “mostro”, al “campione”. È il rischio di ragazzi come Kean, Cutrone, Chiesa, Pellegrini. Tutti giocatori giovani e bravi, ma non fenomeni. Non campioni, né fuoriclasse. Almeno per ora.
Nessun grande cambiamento si fa da un giorno all’altro, e qui intendiamo unicamente suscitare nel lettore una riflessione che vada al di là dei numeri. Perché se è vero che in Inghilterra il numero degli stranieri supera di gran lunga quello degli inglesi, molto più di quanto non accada da noi nel rapporto stranieri/italiani, è anche vero che l’undici titolare della Nazionale inglese è composta di giocatori forti, giovani ed esperti. Calciatori affermati come Sterling, Kane, Arnold e Sancho, o in rampa di lancio, come Foden, Mount, Maddison, Abraham.
La piega presa dall’articolo ci obbliga a mischiare le carte e a giocare un gioco differente. Siamo partiti dal problema degli stranieri e abbiamo terminato parlando dei giovani. I due problemi, tra di loro, sono legati? Non necessariamente. Se è arbitrario dedurre le prestazioni della propria Nazionale dal numero di stranieri presenti nel proprio campionato, lo è anche sottovalutare il problema giovani, che in Italia c’è ed è confermato dai dati. Dei cinque massimi campionati europei la Serie A è quella con l’età media più alta (26.93). Segue la Premier (26.82), la Liga (26.76), la Bundesliga (26.2) e la Ligue 1 (25.58).
Quattro squadre in due continenti, disponibilità di capitale immensa, totale mancanza di rispetto nei confronti dei valori di questo sport. Ecco come la Red Bull è entrata nel mondo del pallone.