E di come l'antenato del tennis ha segnato la vita del genio.
È il 28 maggio 1606, via della Scrofa che va al Cardinal di Firenze, rione Campo Marzio, Roma. All’Accademia dei Falegnami, delimitata dall’abitazione dell’ambasciatore di Toscana, v’è un campo di pallacorda. A giocare con palla e racchette quella sera una comitiva di brigosi, almeno otto, raccontano le cronache dell’epoca. I fratelli Tommasoni, baldi bulli di zona, il capitano Antonio Bolognese, Petronio Troppa, pittori, come Onorio Longhi, altri ceffi non identificati, scarti di galera vari. Tra i pittori ce n’è uno ombroso, “un giovinaccio grande, con barba negra, ciglia grosse et occhio negro”, che s’aggira per Roma bardato di tabarro e cappello altresì neri, seguito da un cane bastardo e rabbioso ancora nero, di nome Cornacchia.
Gira da un gioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe.
È di temperamento rissoso, taluni lo dicono misantropo, ha pochi ma fidati amici e innumerevoli nemici, porta con sé sempre una spada, spiega il suo biografo Bellori. L’anno prima ha assoldato uno scagnozzo per sfregiare in volto il Pomarancio, poiché la curia gli aveva appaltato gli affreschi del santuario di Loreto. Il notaio d’Accumulo, colpevole di passar troppo spesso sotto le finestre della sua amata Lena, viene preso a botte e ridotto in fin di vita.
Lena non è che Maddalena Antonietti, modella per la Madonna dei Pellegrini di Sant’Agostino e per la Madonna dei Palafrenieri. Qualche mese prima, all’Osteria del Moro, il Fusaccia, garzone di bottega, vive la sventura di servire al suo tavolo otto carciofi fritti. Iracondo gli chiede quali siano fritti nel burro e quali nell’olio. Il Fusaccia, da parte sua, dice lui che se li avesse odorati avrebbe capito. Il pittore va in escandescenze e con un piatto rotto gli squarcia la guancia.
Un poco discolo, e tal’ hora cercava occasione di fiaccarsi il collo, o di mettere a sbaraglio l’altrui vita. Pratticavano spesso in sua compagnia huomini anch’essi per natura brigosi.
Si racconta che poco più che bambino, nella nativa Milano, abbia assassinato un coetaneo per una bravata, e per questo ripudiato dalla famiglia e spedito sotto il Cupolone. Avvezzo alle carceri di Tor di Nona, chi lo incontra cambia strada, averci a che fare è impossibile. A una spiccata attitudine alla violenza lo accompagna un certo senso di impunità: è protetto del potente e colto cardinal del Monte, il quale spesso lo sbriga fuori dai guai con la legge. Come nel novembre del ‘600, quando ospite di casa sua, il pittore criminale prende a bastonate in testa Girolamo Stampa da Montepulciano, nobiluomo reo di averlo deriso.
Le risse non si contano, così come le denunce, le querele e le guardie pontificie ingiuriate o malmenate. Michelangelo Merisi da Caravaggio, genio, pazzo e manesco, non sa darsi pace. Quella sera di maggio, sul campo di pallacorda, non si gioca solo una partita a palla, ma va in scena una vera e propria resa dei conti tra bande. Le versioni dell’accaduto si sprecano. Tra i fratelli Tomassoni c’è Ranuccio da Terni, figlio di un capo della polizia ed eroe di guerra, anch’egli con i fratelli dedito a menar le mani. Tra i due scorre acrimonia per via di una donna, Fillide Melandroni, cortigiana senese e modella per Michelagnolo, di singolare bellezza come suggerisce il Giuditta e Oloferne del 1597. La toscana è amica, e forse amante, di Caravaggio ma è protetta dai Tomassoni, capibastone del rione che gestiscono ogni traffico, compresi i bordelli.
Forse anche la politica ad alimentare gli asti, con la famiglia umbra a parteggiare per l’influenza spagnola, il pittore lombardo costretto dalle amicizie potenti ad esser filofrancese. Gli schieramenti non si sopportano e decidono di regolare la faccenda a pallacorda. Il jeu de paume è arrivato nella città dei papi da due secoli, come passatempo dei cortigiani francesi per poi diventare gettonato anche tra i popolani. Si gioca in una struttura chiusa, lunga una trentina di metri e larga una dozzina. La rete divisoria è alta un metro e mezzo ai lati e non tesa al centro, dove non raggiunge il metro. La palla deve colpire terra, il regolamento è una mistura tra volano e tennis.
Quella domenica di maggio Roma è in festa, si celebra un anno di pontificato di Paolo V, zio di Scipione Borghese, grande estimatore del pittore lombardo. Giorni di svago in una città incupita dal clima postridentino e controllata da un severo stato di polizia. L’incontro si gioca al meglio delle cinque partite e la masnada dei Tommasoni sta vincendo. Caravaggio e i suoi chiamano un fallo di gioco, gli opponenti non ci stanno e si dichiarano vincitori. Il debito che ne deriva, dieci scudi, è immediatamente richiesto all’uscita dal campo, in quella strada che oggi si chiama via della Pallacorda, tra le piazze Cardelli e Firenze e via del Clementino.
Tra i fratelli umbri è Ranuccio l’uomo d’affari. È quest’ultimo che salva Fillide dall’indigenza e dalla prostituzione nelle osterie, trasformandola in una cortegiana scandalosa ambita in tutta la Roma patrizia. Non può tollerare che la sua protetta, amante ed amata, se la faccia con uno spregiudicato pittore dei bassifondi come Michelangelo. Con il debito non pagato la misura è colma. Nel parapiglia escono subito fuori le spade. Ranutio punta subito il rivale, la partita a pallacorda era solo un pretesto, e lo invita fare seco questione.
Tra i fratelli è lo spadaccino meno abile, affonda e ferisce Caravaggio ma inciampa e cade a terra. Il pittore, per istinto o forse per sedimentato odio, gli tirò una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede a morte. L’emorragia all’arteria inguinale lascia solo il tempo all’umbro di potersi confessare. Giovan Francesco, il fratello dell’ammazzato, si scaglia contro l’amico Petronio e lo ferisce alla testa. Ci sono venti testimoni la cui maggior parte potente ed influente. L’indomani i funerali di Ranuccio si svolgono alla Rotonda (il Pantheon) e la condanna per Caravaggio è estrema: decapitazione a vista.
Il pittore fugge dai suoi protettori, su tutti all’epoca il principe Francesco Colonna che lo aiuta depistando le indagini e nascondendolo nelle varie tenute dei Castelli romani. Non farà più ritorno a Roma. Quattro anni dopo il Papa è pronto a condonargli la condanna e l’artista, protetto dal ramo partenopeo dei Colonna, si imbarca su una feluca per il Monte Argentario solita far tappa a Palo, sulla spiaggia di Ladispoli, feudo degli Orsini e territorio pontificio, ove avrebbe atteso in pace di poter rientrare nella città eterna. Sulla sua morte aleggia il mistero, le cronache lo dicono vittima di una febbre alta. Spira il 18 luglio, a 39 anni, nel sanatorio di Santa Maria Ausiliatrice di Port’Ercole, curato invano.
In quella notte fatale al campo di pallacorda non è da escludere vi fosse Francesco Boneri, detto Cecco del Caravaggio. Il giovane discepolo, probabile amante del genio, era d’origini lombarde come il maestro. Da giovane aveva posato come modello, causando non poco scalpore, per il celebre Amor Vincit Omnia, oggi allo Staatlische di Berlino. Cecco è dai più considerato tra i più validi dei caravaggeschi.
Nel 1561 a Venezia era stato pubblicata una versione delle Metamorfosi di Ovidio riadattata da Giovanni di Andrea dell’Anguillara, scrittore del momento. La gara col disco del decimo libro era divenuta una partita di pallacorda per adattare ai gusti correnti, così che Apollo uccide Giacinto non scagliando un disco ma un violento colpo di pallacorda, con la pallina che colpisce mortalmente l’amato. La palla in realtà è stata deviata dal dio del vento di ponente, Zefiro, rivale d’amore con Apollo per il principe spartano. Una metamorfosi nella Metamorfosi per accomodare un mito sulla gelosia e la natura ai coevi. Il tema è catturato da Cecco, ed è facile cadere nella suggestione che ad essere narrata nel dipinto è la tragica notte della Pallacorda.
Come nella versione del Tiepolo, due racchette giacciono in luogo del disco sullo sfondo. Apollo è Caravaggio, assassino preterintenzionale del Giacinto-Ranuccio. Boneri ama Caravaggio e dipinge la tela negli anni dell’esilio e dell’attesa della grazia. Nel simbolo del colposo delitto, accidentale risposta alle provocazioni di Tommasoni, il volto di Apollo è disgraziato e tenero, addolorato di aver causato la morte di Giacinto. Un messaggio accorato per dichiarare l’innocenza e invocare la libertà per l’amato maestro.
Non sappiamo se questa speculazione sia verosimile e questa pretesa carica allegorica richiami il fattaccio del 29 maggio. Di certo sappiamo che la vita di uno dei più grandi geni artistici di tutti i tempi è stata tragicamente segnata da una partita di tennis, che come scrivevamo qualche tempo fa, è un intreccio di fortuna e volontà.
Dodici anni fa David Foster Wallace definiva così le magiche prodezze del Re svizzero. Nel 2017 mister 18 Slam è tornato, vincendo i primi tre più importanti tornei della stagione e sconfiggendo la sua nemesi di sempre, Rafael Nadal.