O di come lo Zarevich è pronto a scalare il tennis mondiale: a modo suo, ovviamente.
Daniil Medvedev ha vinto gli U.S. Open. No, non è un’allucinazione visiva scaturita da una notte insonne. Non potrebbe nemmeno essere più lontano da un desiderio di fine estate. Sappiamo fin troppo bene che l’egemonia del tennis contemporaneo ha scolpiti nella pietra i nomi di tre giganti di questo sport e a Flushing Meadows la pallina della roulette degli slam si è fermata sulla bandiera spagnola di Rafa Nadal. D’altra parte, il diciannovesimo major per il maiorchino era un alloro ampiamente preventivato, dopo il forfait di Nole e gli acciacchi di Roger. In fondo la matematica è semplice e sa essere spietata: se in una trojka (per dirla alla russa) mancano due regnanti, il potere non può che essere destinato alle brame di uno solo.
Eppure, la strada verso il quarto titolo a New York, proprio quando sembrava destinata a una finale in discesa, si è improvvisamente impennata, accendendo i riflettori dell’Arthur Ashe Stadium sulla figura singolare e indecifrabile di Daniil Medvedev. Il tennista di Mosca è personaggio fuori dal tempo: un fisico magro e dinoccolato sopra al quale il completino Lacoste in dotazione casca abbondante, nonostante i due metri di altezza. È privo di tutti quei gingilli che sembrano essenziali nell’apparenza inevitabile del ruolo.
Non ci sono polsini sproporzionati sulle sue braccia, anzi a inizio partite le mani pallide di gesso suggeriscono un rimedio ancestrale contro la sudorazione, che nella ex Unione Sovietica avevano magistralmente affinato nelle palestre di ginnastica. A variopinte fasce colorate o cappellini con impressi baffi, strisce o coccodrilli, preferisce domare con gesto involontario il ciuffo, che fa capolino su una testa tonda e grossa, dove l’incipiente calvizie restituisce l’immagine di uno studioso diligente o un nobile decaduto piuttosto che quello dello sportivo professionista.
Daniil, Tsarevich di Russia. (Foto Getty)
In campo il russo è stato imperturbabile dal primo 15 della finale fino all’ultimo, senza tradire mai l’emozione o l’adrenalina, il disappunto o la gioia. Dr. Jakyll che, a fine partita, in un perfetto inglese, si esibisce in un’accorata ed esemplare manifestazione retorica in elogio al pubblico dell’Arthur Ashe, non sembra nemmeno lontano parente di Mr. Hyde: il mostro che, che nella prima settimana di torneo, aveva lanciato racchette, insulti e dita medie ai fischi piovuti dagli spalti di Flushing Meadows, in una reminiscenza, mai troppo desueta, di Guerra Fredda con il pubblico yankee. Infine, il tennis. Perché in fondo il resto è solo contorno e sarebbe destinato a rimanere tale se il russo non fosse così maledettamente straordinario.
Nel corso dell’estate della sua consacrazione, abbiamo imparato a conoscere un giocatore unico nel suo genere che si è mostrato al mondo, nella sua versione migliore, proprio a cavallo tra il terzo e il quarto set della finale di New York. Medvedev ha restituito al gioco l’istinto, abbandonando un piano tattico sempre perdente contro Rafa e affidando il suo tennis alle architetture del presente, riempiendo gli occhi degli appassionati di palle corte e lob, serve&volley senza logiche apparenti, colpi piatti e potentissimi e giochi di volo educati.
L’ottimo servizio ha supportato il russo per tutto il rally sul cemento in questi mesi (Photo by Garrett Ellwood/USTA)
Sgraziato, a tratti quasi scoordinato, talentuoso e mai banale, colpisce e sgasa, attacca e difende, non va mai in affanno e, anche se sembra quasi un corpo estraneo al campo, è efficace come un’agente del KGB. A vederlo, inappropriato contendente di un torneo già assegnato, colpire alternando cross stretti di rovescio anti-fisici a siluri lungo linea, ma soprattutto a ‘sentire’ i colpi dell’avversario, come se vivesse 5 secondi nel futuro, mostra un’attitudine alla premonizione che non si vedeva sui campi dai tempi di un Kid di Las Vegas che a New York qualche soddisfazione se l’è levata.
In una finale che non avrà mai l’epos del classico contemporaneo Federer-Nadal, o il dramma violento dell’ultima storica finale di Wimbledon, Medvedev ha avuto l’insuperabile merito di averci fatto divertire. Il trofeo alla fine l’ha morso ancora Rafa, ovviamente, ma il pianto scrosciante e liberatorio del maiorchino, per una finale che stava velocemente sfuggendo di mano, cataloga il russo a essere differente rispetto decine di meteore che hanno disatteso le promesse più lucenti e si sono spente nella volta celeste.
A vederli appaiati nelle foto di rito, con i rispettivi trofei in favore di camera, il volto sorridente e disteso di Medvedev fa a pugni con gli zigomi scavati di Nadal, gli occhi gonfi di fatica. Ed ecco che all’improvviso la si fa spazio quell’inevitabile sensazione. In fin dei conti ha vinto anche lui: Daniil Medvedev, dalla Russia con stupore.