Sono state settimane di rugby appassionanti. E' ora di tirare le somme.
È appena finito il primo 6 Nazioni della storia ad assegnare punteggi provenienti dall’altro mondo (leggi: quelli dell’emisfero Sud), e quel che si prevedeva sarebbe successo si è avverato: squadre più spregiudicate, attacchi più feroci e scontri fisici di livello assoluto. Il torneo lo porta a casa l’Inghilterra, nel complesso la formazione che più ha saputo essere “squadra” nei cinque incontri. Vero, i bianchi con la rosa sul petto hanno perso l’ultimo match a Dublino e infranto la striscia di vittorie lunga 18 partite, ma restano in prospettiva l’avversario più credibile per gli All Blacks in vista della Coppa del Mondo del 2019. Troppo presto per dirlo? Aspettate. E nel frattempo guardatevi chi da anni sta dominando il panorama giovanile. A questo aggiungete un coach, Eddie Jones, come pochi altri ce ne sono al mondo: era nella stanza dei bottoni dell’Australia campione del mondo del 1999, eminenza grigia molto ascoltata da Jake White nel 2007 (titolo al Sudafrica), vice-campione del mondo nel 2003 e outsider di lusso col Giappone un paio di anni fa. Uno con questo curriculum che prende e va ad assistere spesso agli allenamenti di Pep Guardiola al City per trarre informazioni sulla gestione del gruppo non è propriamente un tipo che si sente “arrivato”. Occhio che gli inglesi, con una formazione giovane e talenti a iosa (Farrell, il monumentale Itoje, le seconde linee), faranno bene. E bene, benissimo è andata la Scozia, che sta finalmente raccogliendo i frutti di un lungo progetto di crescita del movimento. Quel che sta facendo Glasgow in Europa lo replica finalmente pure la Nazionale del neozelandese Vern Cotter, all’ultimo match sulla panchina del Cardo. È vero, risulta stonato il 61 a 21 subito dagli inglesi a Twickenham, ma gli scozzesi hanno finalmente trovato la quadratura del cerchio, aggiungendo ad una mischia buona ma non irresistibile (in touche i fratelli Gray sono terminali) una linea di trequarti effervescente e con alcune stelle non da poco, il centro Huw Jones su tutti. A fare da collante Finn Russell, mediano di apertura talentuoso, magari non il più ortodosso sul mercato, ma abile a portare in avanzamento la squadra e molto cresciuto al piede, soprattutto dalla piazzola, quando si è trattato di sostituire nell’incombenza Greig Laidlaw, il capitano infortunatosi ad inizio torneo.
Vern Cotter riceve gli applausi da parte dei suoi discepoli nel tempio di Murrayfield
Due sono le grandi deluse del torneo.La prima è di sicuro l’Irlanda, che dopo un 2016 incredibile (battuti All Blacks, Wallabies e Springboks) non ha saputo essere la più grande antagonista degli inglesi. Sono arrivate due sconfitte pesanti contro Scozia e Galles che hanno reso inutile (ai soli fini del risultato finale. Volete mettere la soddisfazione?) la vittoria contro gli odiati inglesi. La squadra sta vivendo un ricambio generazionale, ha scoperto in Ringrose un degno erede di Brian O’Driscoll (ma la strada è ancora lunga) e in CJ Stander l’equiparato che più sposta gli equilibri in Europa. Ma, al netto di questo, la squadra è risultata ancora troppo dipendente da Jonny Sexton, mediano di apertura tra i più forti in Europa, ma anche tra i più fragili a livello fisico. Non che Paddy Jackson abbia giocato male, quando chiamato in causa. Ma Sexton con Murray in mediana crea quell’intesa che fa girare al meglio, soprattutto dal punto di vista mentale, tutta la squadra. La seconda delusa è il Galles, forse la squadra che in Europa ha cambiato meno dal punto di vista del gioco. Certo, il lavoro di Warren Gatland negli anni ha portato questo gruppo ad un passo dalla finale della Coppa del Mondo (2011) e a due tornei vinti oltre alla vittoria dei Lions in Australia, ma il monumentale lavoro del coach della difesa, Shaun Edwards, non può bastare se nell’aria c’è un bel passaggio verso un rugby più prettamente offensivo. Né può bastare la Warrenball, tattica offensiva fisicamente devastante, ma che ormai ad alto livello è abbastanza prevedibile. Gatland ne terrà conto, ma non in questi mesi. Sta preparando il tour dei Lions di quest’estate in Nuova Zelanda. Tre partite contro gli All Blacks, presumibilmente ci saranno i Maori All Blacks, poi le franchigie (Crusaders, Highlanders, Blues, Hurricanes, Chiefs). Con le premesse di questo torneo nulla è scontato, tranne il fatto che ci sarà da divertirsi.
Passiamo allora alla Francia. Beh, che dire della Francia? Siamo di fronte ad un animale “strano”. Guy Noves, sulla panchina transalpina dal 2016, è tornato a far giocare i suoi come ai vecchi tempi: via il rugby iper-fisico portato da Saint-André, si torna al caro, vecchio French Flair, alla costante ricerca del gioco al largo, dello spazio, alle finte e ai cambi di passo. Ad occhio nudo i francesi sono tornati una splendida squadra da ammirare in campo, sempre lì a costruire ricicli veloci e a non lasciar spazio e fiato all’avversario. Il problema è che questo tipo di maturazione non è ancora del tutto avvenuta, prova ne sono le sole 8 mete segnate nel torneo a fronte di una mole di gioco molto più voluminosa. Occhio però che il futuro è dalla loro: Baptiste Serin, mediano di mischia di Bordeaux, è un giocatore meraviglioso, da guardare e riguardare mentre esegue i passaggi. Ha solo 22 anni ma sembra già essere destinato a grandi cose. Sempre se non lo scalzerà Antoine Dupont, numero 9 di Castres, di due anni più giovane. Tenuto conto del fatto che in Francia la mediana è considerata monopolio del mediano di mischia, i galletti potrebbero tornare ai vecchi fasti. Se così fosse, saranno dolori per tutti.
L’Irlanda è riuscita a fare lo scherzetto ai cuginastri inglesi
E noi? C’era una volta una mischia fortissima e con molti ricambi, soprattutto in prima linea. La realtà di oggi invece ci dice che il nostro 6 Nazioni è stato una lenta agonia. Se lo aspettavano in pochi dopo la clamorosa vittoria contro gli Springboks a Novembre, eppure il fallimento era nell’aria. Purtroppo, oltre ad una prima linea in carenza d’ossigeno troppo presto, stiamo pagando una falla nel nostro ricambio generazionale, manca una grossa fetta di giocatori dai 27 ai 32 anni, quella che di solito fa la differenza. Poco lavoro di prospettiva che mette in luce il fatto che, dietro ad un meraviglioso Sergio Parisse (lanciato da John Kirwan nel 2003, uno dei pochi a vedere “oltre” mai passato da queste parti), al momento non c’è molto. Conor O’Shea, commissario tecnico dal 2016, ha cominciato un lavoro che auspicabilmente ci porterà risultati sul medio-lungo periodo. Ha chiamato a sé uno staff di prim’ordine, con Mike Catt allenatore dei trequarti e Brendan Venter consulente per la difesa. Qualcosa si è già visto: nessuno ha imbrigliato mentalmente gli inglesi come abbiamo fatto noi, contro la Francia si sono viste buone cose nel primo tempo, così come contro il Galles. Qualche buona individualità, Michele Campagnaro e Simone Favaro su tutti. Ma è troppo poco per una Nazionale che fino a qualche anno fa se la giocava al pari con tutte le altre. Come diceva Peppino, il paziente ha da passa’ ‘a nuttata. Speriamo non sia troppo lunga.