L'ennesimo brutto episodio di un giocatore viziato e arrogante.
Scuro come i finestrini dell’auto che lascia l’Allianz Stadium prima del triplice fischio. Prima forse anche della rete decisiva, quella della Joya (oggi di nome e di fatto) Dybala suo sostituto. Non fatichiamo a immaginare forse anche la frustrazione di una rete che proietta la Juve ancora in testa al campionato ma tuona un verdetto ancora più importante: la Juventus non è Cristiano Ronaldo.
Banale per chi il calcio lo conosce, lo vive, lo mastica quotidianamente. Amara realtà per chi invece attorno alla percezione distorta della propria immagine ha creato un impero. Non si critica il giocatore, si intende. CR7 ha comprovato la sua fama con gesta immortali nella storia di questo sport. E non sarebbe nemmeno disdicevole ammettere una serata abulica come quella di ieri sera. Ma spiegarlo a chi ha fatto della perfezione la propria ragione di vita è forse più complicato.
Sono questi i segni di un rispetto che manca nella cultura personale del portoghese.
Quello che proprio non si riesce a decifrare è il comportamento irrispettoso e irriverente di un simbolo che ha una responsabilità anche morale nei confronti dei molti ammiratori disseminati nel mondo. Avevamo apprezzato, se non addirittura celebrato, la scelta condivisa con la società di non apporre sulla sua casacca bianconera la coccarda della lega come MVP della scorsa Seria A. Sarebbe stato un segnale di superiorità nei confronti dei propri compagni. E un gruppo vincente è connotato da una fondamentale regola basilare: l’uguaglianza.
Ieri, quando al 55^ minuto ha lasciato il proprio posto al numero 10 della Juventus (non un Carneade qualunque) per cercare di scuotere una partita bloccata, eccolo cadere nella più goffa delle contraddizioni. Lo sguardo torvo, il cinque strappato all’argentino, le parole al veleno indecifrabili lanciate verso la panchina. La strada imboccata direttamente verso gli spogliatoi. La macchina che parte veloce tra le strade di Torino mentre ancora uno Juve-Milan accende il pubblico.
Sono questi i segni di un rispetto che manca nella cultura personale del portoghese. Troppo facile rinunciare a un inutile orpello su una maglia di un titolo già vinto. Troppo facile fomentare i propri compagni di nazionale dalla panchina dopo un infortunio. E sempre sotto la luce dei riflettori, che si veda, si noti la grandezza fuori dal campo del campione. Più difficile farlo accettando il fallimento, la serata negativa, la scelta tecnica. Un boccone amaro che peraltro Ronaldo Magno ha dovuto assaporare talmente poche volte che non rendono veramente comprensibile la scenata.
Sabato è stato il compleanno di una grande bandiera bianconera, non un fenomeno, ma una leggenda che ha fatto la storia di questo club. Aveva il 10 e Don Fabio Capello per un biennio intero l’ha sostituito sistematicamente tra il 50^ è il 70^ minuto di ogni singola partita. Mai una polemica, una parola fuori posto. Mai un solo gesto di irriverenza nei confronti della squadra. Impari da lui Cristiano, dalla sua pacatezza, da quella tutela di sacralità del gruppo e delle scelte tecniche che sono alla base di ogni successo. Perché la parola RISPETTO nel vocabolario viene prima di RONALDO.
A inizio 1985 Juventus e Liverpool, nella neve di Torino, si sfidarono per la Supercoppa europea: circa quattro mesi dopo ci sarebbe stato il duello ben più noto, nella tragedia dell'Heysel.