La crisi della Juventus è anche quella del suo allenatore.
Quando su queste colonne ci siamo schierati dalla parte di Allegri, nel momento in cui la Juventus continuava a vincere ma il vento della narrazione stava iniziando a cambiare, lo abbiamo fatto perché non riuscivamo a sopportare l’ideologia nel pallone. Perché Max, da rappresentante della grande scuola italiana, era sincera espressione della pratica contro la teoria: di chi dava la priorità ai giocatori e non ai moduli, di chi sapeva adattarsi, leggere le partite, inventare cose nuove. Oggi però, dopo anni di crociate che hanno lasciato sul campo morti, feriti e strutturali incomprensioni, l’impressione è che Allegri stesso sia stato risucchiato dalla teoria e dall’ideologia, diventando paradossalmente proprio ciò che gli rimproveravano (a torto all’epoca) i suoi detrattori. Ne ha parlato qualche giorno fa Caressa, storicamente parte della “stampa amica” o comunque non critica verso Max:
«Sicuramente Allegri è andato un po’ in confusione e ha sbagliato qualcosa. Personalmente credo che sia dovuto anche al fatto che è andato in guerra religiosa: lui si è trovato una forte contrapposizione di commentatori che lo hanno criticato per il suo modo di giocare da situazionista e lui si è arroccato ancora di più sulle sue posizioni. Ma il mondo cambia e anche noi dobbiamo essere bravi a modificare le nostre idee. Il calcio in particolare va a mode, perché tu ti inventi una cosa, gli altri trovano una contromisura e tu te ne devi inventare un’altra.
Arroccarsi in ideologie è sempre sbagliato secondo me, e temo che lui abbia avuto un po’ questa tentazione».
Una disamina piuttosto verosimile e condivisibile. Allegri ha accusato molto gli attacchi subiti, spesso anche gratuiti, ingiusti, parziali, grondanti della più ottusa e malevola ideologia. Così si è armato per una guerra santa che non poteva vincere. Anziché fare il suo mestiere, quello di (bravissimo) allenatore, anziché studiare, aggiornarsi, creare, è sprofondato nelle trincee di una guerra di logoramento pur di dimostrare a tutti qualcosa. D’altronde qui abbiamo sposato l’Allegri pensiero perché la sua non era una filosofia teorica o teoretica, bensì pratica. Perché, come scrivevamo qualche anno fa, Allegri era «l’italiano perfetto: intelligente, anti-dogmatico, un po’ anarchico ma in fondo conservatore, soprattutto estremamente adattabile». Di tutto ciò sembra essere rimasto solo un conservatore, ma senza più nulla da conservare.
Tanto era adattabile prima quanto è rigido adesso. Tanto era eclettico all’epoca quanto è privo di nuove soluzioni oggi. Tanto era anti-dogmatico allora quanto è ortodosso ora. Nel periodo lontano dalla Juventus si era vantato di aver visto poco calcio, col sottotesto implicito che il pallone non fosse cambiato. Ma come ha detto anche Mourinho, un allenatore vicino ad Allegri in quanto a weltanschauung pallonara, il calcio è cambiato eccome. Non nel senso degli Adani, dei Cassano e di quel circo virtual-itinerante che è la Bobo tv, un danno esiziale e irreparabile per la narrazione sportiva: non quindi come progresso verso stili di gioco propositivi e tutte quelle banalità lì (lo testimoniano i risultati, nazionali e internazionali, degli ultimi anni) ma proprio come evoluzione nel senso latino del termine, come svolgimento di una trama.
Per questo il problema della Juventus di Allegri non è lo stile di gioco superato, l’approccio difensivo, l’idea “sbagliata” (anche gli stili più reattivi si evolvono, come dimostrato da tanti allenatori vincenti), ma proprio il fatto che non ci sia un’idea a dire una, che la Juventus non abbia una qualsiasi proposta né un’identità: non è una squadra che difende e riparte, non è una squadra che attacca, non è una squadra che ha il controllo del pallone o che vuole recuperarlo; ancora non è una squadra di carattere, che pur giocando male porta a casa il risultato di mestiere, mentalità e personalità – anzi. In definitiva, la Juventus al momento non è una squadra e basta. Certamente non solo per colpa di Allegri, tutt’altro, ma gli alibi a cui si appella il tecnico livornese non sono più sufficienti. Come quelli esposti a Mario Sconcerti, in un’intervista al Corriere della Sera tra l’altro non concordata con la società:
“La Juve di adesso è virtuale. Lo so che manca chi sappia inventare negli ultimi trenta metri, ma avevamo preso Pogba e Di Maria per questo. (…) Sono contento del progetto di mercato, mi è piaciuto. Ma i giocatori in campo non ci sono. Provate a togliere all’Inter o al Milan cinque titolari, poi vediamo se vanno in difficoltà”.
Frasi che dimostrano quanto Max si senta in difesa, in dovere di giustificarsi. Eppure anche qui, frasi che concettualmente lasciano più di qualche dubbio, a partire dal paragone con i titolari di Milan e Inter. Tralasciando il caso Chiesa, il cui rientro è leggermente slittato ma che comunque non sarebbe stato a inizio stagione, restano Pogba e Di Maria: il primo che veniva da due anni a dir poco intermittenti, e che si portava dietro problemi fisici ormai cronici; il secondo prelevato a 34 anni per il suo unico anno in Italia prima di tornare in Argentina, per di più nell’anno del Mondiale, priorità non solo sportiva ma anche esistenziale per uno come il Fideo, colonna tecnica e caratteriale dell’Albiceleste. Insomma, la Juventus di adesso è virtuale come a maggior ragione è virtuale quella con Chiesa, Pogba e Di Maria insieme.
Lo sapete, abbiamo sempre scritto che ci sono diversi modi di sviluppare un progetto, di far crescere una squadra; con buona pace dei pornografi del campo, animati dal vizio che il rettangolo verde esaurisca tutto ciò che esiste nel calcio, e intimamente convinti che i progressi di una rosa si misurino solo con il gioco. Si tratta di un’illusione, spesso coltivata da chi a pallone ha giocato poco o male, di quella realtà sensibile – per dirla con gli antichi Greci – tanto immediata ed evidente a tutti quanto ingannevole. Il calcio è invece questione innanzitutto di uomini prima che di giocatori, e ci sono strade diverse per raggiungere risultati e far maturare una squadra: prendete Mourinho alla Roma, che certo non ha dotato i giallorossi di un gioco scintillante nella continuità ma ha invece colmato alcuni eterni e strutturali limiti di carattere della squadra, fino a farla vincere (dopo quasi quindici anni) e per di più in Europa – cosa che con il propositivo Fonseca, possiamo dircelo, non sarebbe mai successa.
Per un motivo simile era stato richiamato Allegri: non per inaugurare uno stile di gioco dominante e propositivo, ma per recuperare l’identità, il carattere e la mentalità della Juventus; per farle (ri)fare un salto di personalità e consapevolezza, per riacquisire quel cinismo spietato per cui, quando il gioco si faceva duro, i duri iniziavano a giocare. Una missione al momento ampiamente fallita. Basta vedere i giocatori della Juventus in campo: spauriti, inebetiti, svuotati, rassegnati; ignari di cosa fare e del perché farlo. Coloro che avrebbero dovuto, con il ritorno di Max, far sentire in campo tutto il proprio peso, oggi hanno paura persino della propria ombra. Se la prima Juve di Allegri vinceva ancora prima di scendere sul terreno di gioco, ora qualsiasi squadra, anche la più piccola, sa già negli spogliatoi che contro i bianconeri avrà una possibilità, in casa o fuori.
Insomma, oggi la Juventus non ha un’anima, non ha un gioco, non ha un’idea, non ha carattere. E soprattutto sembra esausta.
Non solo non ha energie, ma non si capisce dove o come possa trovarle. È un albero dalle radici inaridite oltre che dalle foglie secche. Una squadra inerte, svuotata, incapace di reagire. Eppure solo degli ottusi miliziani digitali, cresciuti a semplificazioni e cassanate, possono credere che questa squadra rispecchi il proprio allenatore; di più, possono giudicare l’intera carriera di Allegri ridicolizzandola, ridimensionandola, sostenendo che i risultati ottenuti siano arrivati solo per fortuna, o per valore dei suoi giocatori, o per il lavoro di Conte. La memoria è corta e l’intelligenza è poca, ma oggi parlare del passato è inutile e controproducente: un passato in cui Allegri è il primo a non potersi rifugiare, ma nel quale dà a volte l’impressione di essere rimasto.