Se la macchina supera anche la realtà è ora di preoccuparsi davvero.
Dopo lo swing americano, il circuito è tornato nel continente europeo a sporcarsi le suole di polvere di mattone, dal Principato fino a Parigi, in un tour Mediterraneo che trasuda nobiltà e tradizione e ci riporta al tennis più faticoso che ci sia. In questa stagione le grandi novità sono dettate dal tempo. Quello che scorre, ci fa guardare indietro e consegna per la prima volta, dopo vent’anni, una terra rossa orfana del suo interprete più grande di sempre, Rafa Nadal. Ma anche quello che sta mettendo in luce le difficoltà di Novak Djokovic, alle prese con un conto alla rovescia che sembra ora più che mai concreto.
E poi c’è un tempo invece che volge le attenzioni al futuro: un domani tecnologico, se non addirittura tecnocratico, i cui pilastri si stanno dimostrando della stessa argilla di cui sono fatti i campi da gioco.
A tal proposito è bene riavvolgere per un momento il nastro. Il tennis è stato uno dei primi sport di massa ad introdurre un assistente tecnologico al gioco. Inizialmente Hawk Eye era un semplice esercizio di computer grafica: una simulazione di traiettoria che doveva integrare, talvolta sostituire, l’instant replay televisivo e fornire una chiara ricostruzione del punto d’impatto del colpo. Il cartone animato – simpaticamente ribattezzato dai media nostrani – piacque così tanto alla ATP che, dopo averlo migliorato e sperimentato qua e là in alcuni tornei del circuito, questa decise di elevare Hawk Eye a sistema di revisione ufficiale delle decisioni arbitrali.
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A dire il vero, l’assistente artificiale ha portato un’innovazione apprezzata nel circuito, mitigando soprattutto le insofferenze di tennisti inconsolabili di fronte a convinzioni, più o meno infondate, di chiamate scorrette. Insomma i challenge hanno accontentato tutti e il sistema di valutazione è stato preso come riferimento per lo sviluppo di analoghe applicazioni in altri sport. Persino la sua chiamata in causa, uno dei crucci ancora irrisolti del calcistico VAR (per dirne uno), non destava alcun intoppo né al gioco, né allo spettacolo.
D’altra parte il ritmo sincopato degli scambi del tennis ben si conciliava con l’applicazione di una revisione tutto sommato ininfluente ai fini della dinamica.
Così dalla sua introduzione, US Open 2006, il sistema è stato integrato in modo graduale ed efficace, con un’unica, romanticissima, eccezione. Tradizionalmente, infatti, i tornei che si giocano sulla terra rossa consentono un’estensione di regolamento non prevista per le altre superfici: qui d’altronde la pallina, nel momento dell’impatto, lascia un chiaro segno che, in caso di chiamata dubbia dei giudici di linea, può essere verificato prontamente dall’arbitro; questi, scendendo dal suo alto seggiolone e controllando personalmente, può infatti determinare con certezza pressoché assoluta il punto di impatto al suolo.
Una circostanza che ha fatto sì che Hawk Eye, in questo (quasi) ventennio, non sporcasse mai di terra rossa le lenti delle sue decine di camere; perché in fin dei conti, persino in questi tempi strani, il buon senso riconosce che l’evidenza possa annullare anche la tecnologia. O almeno, così avevamo sperato. Se è vero infatti che il progresso e la tecnica non si fermano mai, è implacabile anche quella voglia, tutta umana, di voler cambiare pure ciò che funziona. Come se l’innovazione, più che essere un rimedio a dei problemi, un supporto e un facilitatore, sia diventata molto semplicemente il modo di fare le cose.
Così, dopo quasi vent’anni di utilizzo rodato che aveva convinto addirittura sua maestà Roger Federer – inizialmente tra i pochi contrari ma poi anch’egli convertito al falco –, la versione originale di Hawk Eye è andata in pensione. In via sperimentale a fine 2017 e poi con sempre maggiore diffusione, apportate le integrazioni necessarie per far sì che le traiettorie delle palline fossero tracciate in tempo reale, la ATP non ha esitato a demandare all’intelligenza artificiale la gestione di tutta la partita, senza più bisogno dell’occhio umano.
Si è deciso di promuovere il Falco a giudice di linea ufficiale, sostituendo i tradizionali arbitri competenti con l’evoluto sistema di telecamere che mappano tutto il campo. Una soluzione tecnologica per ridurre gli errori, in teoria, ma soprattutto abbattere i costi di professionisti pagati per giudicare la prossimità delle palle nei pressi delle linee. Ma anche un processo ormai comune nella nostra epoca, laddove sempre più mestieri vengono sostituiti dall’evoluzione tecnologica e dai suoi utilizzi via via più estesi.
Nel 2025 anche a Wimbledon non ci saranno più i giudici di linea. (Foto: Vito Alberto Amendolara, riproduzione vietata)
È tuttavia giusto puntualizzare che, sin dall’inizio della sua applicazione, Hawk Eye si è sempre portato un fardello non indifferente. Ancora oggi la società che ha sviluppato la tecnologia ammette un margine di errore medio di 3,6 mm, che in alcuni casi può arrivare fino a 4mm. Una tolleranza considerata accettabile, specie perché parrebbe essere comunque inferiore al margine di errore dell’occhio umano: condizionale d’obbligo, visto che studi specifici sul tema non sono stati forniti. Così, oggi quasi tutti i tornei sono un po’ più spogli, e le urla meccaniche che esclamano “OUT!” in modo sempre identico azzerano una voce della libreria di suoni cui il tennis ci ha abituato.
Ok, ma i tornei sulla terra? Beh, non era utilizzato Il Falco, non sarà cambiato nulla ora, direte voi. Invece chissà quale illogico motivo, forse l’incapacità umana di gestire la tecnica senza invece consegnarsi ad essa, ha spinto buona parte dei tornei sul rosso a uniformarsi a questa prassi. Il problema sta nel fatto che il sistema di arbitraggio elettronico non prevede più le revisioni: d’altra parte, non farebbero altro che riproporre l’immagine che ha già giudicato la palla soggetta a contestazione.
Ma, a maggior ragione, questo sistema non prevede nemmeno un overrule da parte del giudice di sedia, ovvero la possibilità di contraddire una decisione dei giudici di linea. Il paradosso dunque è che pure il segno lasciato dalla palla sulla terra rossa non può essere soggetto a indagine, se si decide di adottare il sistema di arbitraggio elettronico.
In questo modo anche di fronte a palle che possono subire il margine di errore proprio del Falco, o di un malfunzionamento del sistema, nessuno in campo ha la possibilità di sindacare la decisione e contestare la chiamata. Una situazione assurda che già a Montecarlo aveva generato qualche borbottio, ma che è definitivamente esplosa a Madrid con il caso Zverev (non certo uno qualsiasi) che ne ha platealmente criticato l’insensatezza. Dopo aver scattato una foto a una palla contestata e averla pubblicata sui social con il testo: “Just gonna leave this one here. This was called in. Interessing call.”, il tedesco ha confermato ai microfoni:
«Non è colpa dell’arbitro — Mohamed Lahyani, un dei veterani del circuito ndr — se la regola dice che non può scendere, non può scendere. Ma parlerò con i supervisori e con l’Atp, perché non è normale».
Sulla scorta della sua, educata, protesta, si sono poi accodate altri voci. La romena Sorana Cirstea ha dichiarato, sempre attraverso i social: “Non capisco la necessità di utilizzare l’arbitraggio elettronico sulla terra e rimuovere i giudici di linea. Così come non capisco perché il giudice di sedia non può scendere a controllare il segno. Il sistema di controllo elettronico delle linee NON È ACCURATO!”. E hanno sostenuto la causa di Sascha apertamente anche le leggende Navratilova e Becker, in quella che di fatto sembra una battaglia culturale, prima che sportiva. L’adozione delle macchine e dell’intelligenza artificiale come sinonimo di affidabilità e giustizia, ormai sottratta al giudizio umano perché statisticamente inaffidabile.
La storia con cui Zverev ha denunciato la clamorosa inesattezza del Falco.
E così ci si ritrova all’improvviso in un mondo ribaltato, in cui i robot vengono adottati per assicurare la verità, un concetto per sua natura inafferrabile a meno che non se ne voglia fabbricare uno. E lo si fa pur sapendo, e candidamente ammettendo, che la macchina ha margini di errori non indifferente. Così, anche di fronte a soluzioni pacifiche di buon senso, ci ingabbiamo in situazioni paradossali che non nobilitano certo la nostra intelligenza. Nel frattempo da Parigi, il Roland Garros si è affrettato a comunicare che non verrà adottato il sistema di arbitraggio elettronico nella edizione 2025, così da assecondare anche le dure critiche mosse dal numero 1 di Francia Arthur Fils:
«È orribile. Giochiamo con l’arbitraggio elettronico da qualche settimana. Siamo sulla terra, ci sono dei segni. Ho ricevuto un servizio due o tre centimetri fuori e quando guardi il video, ti dice che ha colpito la linea. Lo trovo orribile».
Insomma, a Parigi potremo ancora godere dei sali-scendi, talvolta molto goffi, dei giudici di sedia, con le loro occhiate ai segni e i movimenti per assecondare la prospettiva e determinare la traiettoria. Una ventata di normalità per uno sport che della tradizione ha fatto il suo vanto e la sua cifra. Ma non durerà molto. Già sappiamo che anche Wimbledon ha sposato il mondo nuovo, alterando non di poco l’estetica del torneo, ma soprattutto prestandosi ad altre polemiche assordanti: perché in fondo, la tecnologia, non saprà mai riconoscere lo sbuffo della polvere di gesso che si alza dai lembi di una riga. Fifteen – Love.
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