Il 7 aprile del 2004, allo stadio Riazor di Coruña, Galizia, al minuto settantasei un sinistro sporco di Fran deviato da Cafù si è appena insaccato in rete, di fronte allo sguardo attonito di un impotente Dida. È il gol che sigilla il 4-0 definitivo, e che perfeziona la rimonta dei padroni di casa – aperta dai gol di Pandiani, Valerón e Luque – contro il Milan di Ancelotti, Shevchenko e Kaká. Nonostante il 4-1 di San Siro, i campioni d’Europa in carica vengono eliminati ai quarti in una partita storica, incisa per sempre nella memoria collettiva della Champions League.
Una partita surreale, che ancora riecheggia negli incubi di qualche tifoso rossonero e nei sogni più floridi dei più nostalgici brancoazuis. Una partita dalle sfumature oniriche, ricordo vivido di un’epoca ormai sbiadita, manifesto di un calcio mistico che a più di vent’anni di distanza conserva la sua aura magica e trascendentale. Una partita che è stata allo stesso tempo lo zenit internazionale ed il canto del cigno di una squadra romantica, malinconica, colma di giocatori iconici e indimenticati. Il mitologico SuperDepor, fucina di imprese memorabili e tragica vittima di se stesso.
Lo Estadio de Riazor, la casa del Depor (Foto: Jose Luis Cernadas Iglesias, via Wikimedia Commons)
L’epopea del Depor è indissolubilmente legata al suo presidente storico, quell’Augusto César Lendoiro che nel 1988 prende le redini di un club impantanato da anni in Segunda División. Galiziano di ferro, Lendoiro è un uomo d’azione, un astuto contrattatore estremamente pratico e ambizioso. Prima che assuma il comando, il Depor sta lottando per non retrocedere in Segunda B: con 600 milioni di pesetas di debito, el descenso sarebbe il tracollo definitivo. Ma all’ultima giornata, grazie a uno striminzito 1-0 contro il Racing Santander, arriva la salvezza. Sarà una delle tante sliding door della decade d’oro.
A partire dalla stagione successiva, Lendoiro porta una visione strategica ed efficiente, in primo luogo atta a mantenere stabilità e rafforzare il legame con la gente. Dopo tre anni, i socios del club sono più che triplicati, passando da 5.000 a 17.500. È solo l’inizio di un connubio – quello tra il club e la città – che diventerà inscindibile. Tuttora rimane la più grande eredità lasciata dal presidente, certificata dai quasi trentamila abbonati registrati quest’anno. “La squadra e la città sono una cosa sola” mi dice uno di questi, Javi.
“Insieme alla Torre di Hercules, è la cosa che ci rappresenta di più”.
Dopo gli anni di assestamento, nel 1990-1991, arriva l’agognata promozione, solo sfiorata l’anno precedente. Un traguardo che non veniva raggiunto da diciotto anni, ma che è solo la rampa di lancio per le ambizioni de los herculinos e del suo presidente, che avvia un piano di investimenti copioso, a cominciare dal monte ingaggi e trasferimenti. I colpi più scintillanti saranno i brasiliani Bebeto e Mauro Silva, che nonostante le sirene di molti club europei vengono convinti da Lendoiro a venire in Galizia (avrebbe detto loro che il clima era simile a quello di Rio de Janeiro).
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