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19 Dicembre 2024

No Más

Ray Leonard v Roberto Duran: USA v Panama.

I pugni scandiscono il tempo come un metronomo, un tamburo battente senza sosta mentre il sudore cade a grandi gocce sul pavimento della palestra. Ray Leonard è nella sua migliore forma di sempre, leggiadro sui piedi ed aristocratico anche mentre prende a cazzotti un sacco. È il golden boy, l’astro nascente della boxe americana dopo Muhammad Ali. Lo sa e ne è compiaciuto, inebriato, già dall’età di sedici anni gli allenatori della squadra olimpica hanno iniziato a chiamarlo Sugar, dolce come lo zucchero, come Sugar Ray Robinson, il più grande di sempre. Presunzione? No, una dichiarazione di intenti.

Era già il campione nazionale dei pesi leggeri, sarebbe anche in grado di partecipare alle Olimpiadi, ma il regolamento non lo permette e lui e il suo allenatore decidono di mentire sull’età. Per centrare il peso corre intorno alla pista d’atletica fino a svenire, ma è costretto a rimandare di quattro anni. La sua stella si rivela finalmente al mondo per la prima volta nel 1976, quando alle Olimpiadi di Montreal manda al tappeto il cubano Andres Aldama, conquistando la medaglia d’oro.

Leonard è l’angelo dal sorriso smagliante che diventa serpe nel ring. Un bravo ragazzo, bello, già sposato e con figlio, l’America non può che farne il suo nuovo eroe. Basta con Ali e il suo impegno sociale, gli anni 70 stanno finendo e gli anni 80 hanno bisogno di un pugile di consumo, che incarni l’identità e le speranze di un’America in rampa di lancio. Leonard, fresco medagliato, passa così al professionismo, e la sua sembra una corsa apparentemente inarrestabile. É già una superstar e il suo volto affolla i teleschermi, facendo la spola fra i match e un indefinito numero di pubblicità e programmi televisivi. Il titolo mondiale è solo questione di tempo, e la cintura WBC dei welter arriva nel novembre del 1979 contro Wilfried Benitez.

Ma mentre Leonard si allena agli ordini di Angelo Dundee questi sono lontani ricordi. Nella sua mente ci sono i pugni, duri come sassi, la rabbia che gli è stata scaricata contro, dentro e fuori dal ring, sua moglie e suo figlio spaventati da quell’animale che, dopo averlo sconfitto, aveva mostrato il sedere nudo ai reporter in prima fila. Quell’uomo sembrava un diavolo, lo aveva colpito mille volte e in mille punti. Voleva dimostrare di non avere soltanto un bel sorriso, ma per la prima volta nella carriera di Sugar Ray Leonard un suo match non è stato una danza ma una caccia, e lui era la preda…


🤼🏼‍♂️ EL ORGULLO DE PANAMA 🤼🏼‍♂️


Molti chilometri più a sud, in una palestra umida dal soffitto in travi di legno, i pugni sono più flemmatici, ma le nocche affondano nel sacco come nella nuda sabbia. Roberto Duran è provato da settimane di festa a New York. Dopo aver sconfitto Leonard non si è risparmiato fra cibo, alcol e donne. É stato richiamato in fretta a Panama, la rivincita è già fissata fra pochi mesi, peccato che non si allena dal match ed è ingrassato di svariati chili, ma dieci milioni… Uno che ha fatto il lustrascarpe, lo strillone, il lavapiatti non può rifiutare dieci milioni. Uno come Duran non può rifiutare un combattimento, lui che è nato solo per combattere.

Qualche settimana prima aveva dato una lezione a quel pagliaccio yankee. Roberto Duran per l’America provava un odio viscerale, l’odio di quando da piccolo raccoglieva i sassi per lanciarli agli statunitensi al confine di quella Canal Zone che per gli USA era un simbolo di potere e ricchezza.

Gli americani stavano lì nelle ville, protetti dai loro soldati, mentre poco lontano nelle baracche di El Chorillo Duran e altri come lui lottavano per il pane al grido “Yankee go home”.

Duran contro Leonard è molto di più di un incontro di pugilato. Alla vigilia del primo incontro l’orgoglio panamense disse al dittatore Torrijos: “Come noi contiamo su di te per l’accordo con Carter sul canale, potete contare su di me per questo match”.

Duran dice di aver imparato a lottare guardando i film messicani, ma la verità è che la violenza è nel suo DNA. Il suo bisnonno con la testa aperta in due da un machete strisciò fino alla sua fattoria prima di morire, sua nonna la notte della sua venuta al mondo sorprese il marito in compagnia del whisky e di una giovane ragazza, lo stese con un destro per poi riportarlo dal nipote appena nato.

Una violenza che scorre nelle vene del giovane Roberto, che per strada cresce in fretta, a scuola viene espulso perché fa sempre a botte, poi una macabra scommessa ad una festa gli cambia la vita. “Se stendi quel cavallo ti do 100 dollari”, non se lo fa ripetere due volte, gancio destro e il cavallo cadde a terra.

Per sua fortuna arriva la boxe, dove diventa professionista a soli 15 anni: “Da noi non c’erano tante possibilità. Vedevi i tuoi amici morire per strada, uccisi da una coltellata. L’unica cosa che potevi fare era augurarti che non capitasse anche a te. La boxe era una soluzione per evitare guai”.

Sul ring trasporta la rabbia della strada, l’istinto da re della giungla, quello che: devo prendere ciò che è suo altrimenti lui prenderà ciò che è mio. Il ghigno alla Che Guevara, i capelli e gli occhi neri come l’inferno, Joe Frazier disse di lui: “Chi mi ricorda? Charles Manson”. Tanti match vinti quanto gli avversari mandati in ospedale, più di un suo contendente finì di boxare dopo aver incrociato i guantoni con lui. Si era fatto strada dal barrio al Madison Square Garden a suon di pugni, guadagnandosi il titolo dei pesi leggeri e il soprannome di “Manos de piedra”.



Il primo incontro con Leonard a Montreal era il più ricco ed atteso match di boxe ad uscire dall’Olimpo dei pesi massimi. USA contro Panama. L’angelo contro il diavolo.

“Odiavo tutto quello rappresentava Leonard: il ragazzino intelligente, nato ieri, che non voleva nemmeno passare per nero, che valutava attentamente ogni avversario. Io ero solo un picchiatore selvaggio, anche se cercavano di farmi diventare un killer paziente. Quando salivo sul ring pensavo: ti faccio fuori. Il pubblico mi apprezzava. Il Canada tifava per me, non per il golden boy che aveva vinto l’oro olimpico lì a Montreal nel ’76 e che sembrava un attore tanto aveva modi educati e seducenti” (Duran prima del primo incontro).


🥊 NO MAS 🥊


A Montreal Leonard aveva ricevuto la sua lezione e Duran la sua gloria. Le immagini di Panama quel 20 giugno del 1980 rimandano ad un paese che ha appena vinto i Mondiali di calcio: le strade affollate, le bandiere, i clacson.

L’americano però ora brama vendetta, ed ha ottenuto in fretta una rivincita. Questo Leonard è lo stesso che corse fino alla sfinimento per partecipare alle Olimpiadi, perché se Duran è un animale da combattimento Sugar è un animale da competizione. Nel novembre dello stesso anno i rivali si ritrovano al Louisiana Superdome di New Orleans. Leonard sembra scolpito da Fidia, un fascio di muscoli che danza sulle punte, Duran è tozzo, peloso, un cinghiale pronto alla carica, al confine fra aggressività e follia.

Alla vigilia delle elezioni presidenziali che vedranno salire alla Casa Bianca Ronald Reagan, il match sembra la sceneggiatura di un film dell’attore diventato Presidente. La rivincita del cowboy contro l’indiano. La scenografia è il trionfo dell’orgoglio americano, prima del match Ray Charles canta “America the beautiful”, poi si avvicina al suo omonimo, Ray Leonard, e gli sussurra: “fallo a pezzi”.

Non è più il Canada, questa è l’America, e tutti nell’arena lo percepiscono, a partire da Roberto Duran. Quando suona la campana Sugar non è impietrito come la prima volta, danza sulle punte come suo solito, e punge Duran con colpi rapidi e precisi. Leonard si fa bullo e ripaga il panamense con la sua stessa moneta, la spacconeria e le provocazioni. Poi, come un buon film western, ecco il colpo di scena.

Al settimo round improvvisamente Duran si ferma, scuotendo la testa e la mano alzata. “No mas, no mas”, dice il campione. L’arbitro, Leonard, il pubblico, tutti sono increduli: Duran si sta ritirando? Sugar pensa ad una finta, un’altra delle sue sporche tattiche, poi l’arbitro decreta la fine dell’incontro, e a New Orleans scoppia la gioia.

Un ritiro entrato nella leggenda, di cui tutt’ora non si conoscono le ragioni. Dai crampi alle accuse di combine, si sono sprecate le ipotesi sui motivi che hanno portato all’abbandono del atleta più macho del mondo. Se la boxe è metafora della vita quella frase è la reazione d’impeto, lo scatto d’ira. Due maledette parole di cui Duran si pente ancora oggi, che hanno messo un punto alla suo leggenda. Come può il lottatore più impavido, quello venuto fuori dal barrio, arrendersi?

Chi avrebbe mai detto che la notte più bella di Roberto Duran avrebbe anche segnato l’inizio della sua fine. Un’umiliazione che lo ha perseguitato dal suo rientro a Panama, dove è stato accolto al grido di “verguenza”, fino a molti anni a venire.

Ma se da un lato c’è l’onta dello sconfitto, anche sotto i riflettori per Leonard il no mas ha rappresentato una vittoria mutilata. Sugar pretendeva un dominio, una vittoria che mettesse a tacere le voci su lui, che lo consacrasse come il migliore, non certo di vincere per abbandono. Un doppio filo fra bene e male, vittoria e sconfitta, successo e oblio, che ha sempre tenuto insieme due personalità così opposte ma così unite dal destino. Leonard e Duran son due equilibristi, che con il baratro hanno flirtato per poi rimettersi a camminare.

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