Picchiava forte Roberto Durán, eccome se picchiava forte. Manos de Piedra mica per nulla: per lui la boxe era prima di tutto gusto di far male, poi lavoro. Quel soprannome se l’era guadagnato cazzotto dopo cazzotto, anche se bastava incrociarne semplicemente lo sguardo per iniziare a vacillare sulle proprie ginocchia. Capelli e occhi neri come la notte. Come la morte. E forse non aveva propriamente sbagliato Joe Frazier, quando gli avevano chiesto a chi potesse somigliare quell’arma impropria portoricana. “A Charles Manson”, rispose Smokin’ Joe. Il diavolo fatto guantoni.
Per molti è da considerarsi il più grande peso leggero di sempre. Roberto Durán Samaniego nacque a Panama il 16 giugno 1951.
Spaventava tutti Durán, perché davanti alla vita aveva dovuto dimostrare lui stesso di non avere paura. Funziona così, se nasci nel ’51 a Panama, respiri la miseria e campi alla giornata. O scappi o muori. Oppure colpisci e colpisci duro. Allora sì che forse ti salvi. Ce l’aveva nel sangue la boxe. Indole di famiglia, come un giorno racconterà alla strepitosa penna di Emanuele Audisio: allo zio bastava un pugno per rompere una noce di cocco, la nonna si era fatta giorni di galera per aver colpito e mandato giù il sindaco di Guararé. La notte in cui Roberto nacque, la stessa nonna andò a vedere dove fosse il marito. Lo trovò in un mare di alcool, con un’altra donna vicino. Forse si salvò la bottiglia, la puta certamente no. Più chiaro di così…
Che anche le sue mani sapessero far male, Durán lo scoprì ancora ragazzino, per un gioco tanto macabro quanto propiziatorio.
Esterno notte, festa, sbronza. Gli propongono dei soldi, come premio. Ma prima deve stendere un pony. Roberto carica, colpisce dietro le orecchie. L’animale stramazza e insieme ai soldi ecco che parte pure la carriera. È incapace di rispettare i tempi Manos de Piedra, brucia le tappe, sul ring e nella vita. A sedici anni passa già professionista, appena un anno prima ha già conosciuto come si possa vivere dietro le sbarre. Ma c’è finito per difesa. È in discoteca, balla con la ragazza. In cinque gli si avvicinano, provocano e lo aggrediscono. Durán mica scappa, li affronta. E li mette giù uno per uno. Quando esce di cella, l’altra vita può cominciare.
In allenamento.
La prima volta è nel ’68, a Colón, pochi passi dal canale della discordia. Gli mettono davanti un connazionale, Carlos Mendoza. Finisce ai punti e vince Roberto. Da lì ne seguiranno altri 28, di cui 24 prima dall’ultima campana. Mattanze, più che incontri. In uno di questi vi capitò anche Cesar De Leon, che finì giù e poi dritto al pronto soccorso: dalla lettiga ne sarebbe uscito, ma su un ring non avrebbe mai più messo piede. Intanto è passato ai Superleggeri, tra i soprannomi che gli affibbiano ci sono anche il killer di Panama e il dentista. Solo che operava senza anestesia. Il 26 giugno del ’72, a dieci giorni dal suo ventunesimo compleanno, gli concedono finalmente l’occasione per il titolo. Quella che ti può valere la carriera. New York, Madison Square Garden, Durán è lo sfidante di Ken Buchanan, un figlio di Edimburgo che di match ne ha già vinti 43 e più della metà per Knockout.
È forte lo scozzese, ma contro Roberto va addosso a un camion carico di mattoni.
Al primo round la combinazione destro-sinistro del panamense va già a segno e Buchanan tocca terra senza aver ancora potuto scaldarsi. Si va avanti fino alla tredicesima campana, Durán domina ma quell’altro tiene. Poi il giallo, perché il britannico accusa un colpo sotto la cintura, ma l’arbitro non vede. Rinuncia, vittoria: era scoppiata la vena di un testicolo. E “se si fosse rialzato l’avrei massacrato ancora di più”. Il niño venuto dal nulla è già padrone del Mondo.
Buchanan a terra, Durán è campione
Quando pochi mesi dopo si trova nuovamente tra le corde del Garden, però, la musica cambia. Sul ring c’è Esteban de Jesús, portoricano, affamato e col piglio del maledetto tanto quando Roberto. E infatti il panamense va lungo appena dopo la prima campana, senza riuscire a ritrovare la sua boxe. Finirà ai punti e vincerà de Jesús. Poco importa che nessuno dei due fosse nel peso e il match sarebbe stato invalidato. La prima sconfitta era arrivata e per Durán ormai c’era solo sete di vendetta. Nel 1974 ecco finalmente la rivincita, capitolo due della saga. Il portoricano inizia come sa, alla prima già colpisce.
Ma stavolta Roberto è più preparato, più duro e più incazzato. Anche perché combatte a Panama City, casa sua.
Alla settima una combinazione manda per la prima volta giù il portoricano, all’undicesima ecco che il lavoro di completa. Stavolta è Durán a vincere. Ma non sarà la fine della rivalità. Il terzo capitolo viene scritto quattro anni più tardi, nel ’78. Unificazione dei titoli dei Superleggeri, in palio c’è tutto il Mondo. Si va a Las Vegas. Cesar Palace gremito. Chi ha sborsato i suoi dollari per un biglietto gusta la battaglia, match equilibrato. Colpisce l’uno, risponde l’altro. Poi alla dodicesima de Jesús scopre la guardia, il destro di Roberto entra e va dritto sul mento. Il portoricano vacilla, si siede, scuote la testa. La spugna gettata dal suo secondo è la normale conseguenza e la fine della saga.
Contro Esteban de Jesús la prima trilogia
Qualche anno più tardi, ecco un’altra trilogia. Stavolta nei welter, dove intanto s’è fatto largo un certo Ray Leonard, per tutti semplicemente Sugar. L’altra faccia della medaglia, il buono e bello. L’anti Roberto. Infatti Durán lo odia, mica lo nasconde. È il 1980, gira per Panama con un leone legato alla vita, parla così come picchia. Di Leonard non gli piace niente, e come potrebbe? Lui è venuto dai bassifondi, dopo gli allenamenti lustrava scarpe e raschiava il cibo dalla pentola. L’altro è l’enfant prodige della boxe americana, lo allena quell’Angelo Dundee che ha forgiato anche Muhammad Ali e si comporta da attore. Divo, Leonard. Dolce come quello zucchero che gli dà il soprannome.
L’altro invece è il killer, prima del match al golden boy statunitense gli insulta addirittura moglie e figli.
Però il favorito è proprio Sugar, 9 a 5 per gli allibratori e borsa record già guadagnata. Anche perché si combatte a Montréal, stadio Olimpico: lì Ray ci ha vinto la medaglia d’oro ai Giochi del’76. Ma stavolta il Canada diventa panamense. Durán combatte meglio, Sugar resta in piedi ma alla fine il verdetto dei giudici è unanime e impietoso. Se ne renderà conto anche lo statunitense, che dichiarerà apertamente di non aver mai incontrato avversario così duro, prima di quella notte canadese.
Sugar Ray Leonard vs Roberto Duran
La rivincita arriverà poco dopo, stavolta New Orleans, Louisiana. E la borsa maggiore se la becca Roberto, ma a vincere è quell’altro. Perché il bello avrà pure i modi da attore, ma sa anche boxare. E pure bene, infatti domina. Manos de Piedra subisce, si stizzisce. E all’ottava abbandona. Il suo diventerà il “No Más” più famoso della storia. Il perché si perde ancora nei corridoi della leggenda, tra la troppa frustrazione e un presunto “non combatto con quel pagliaccio”. Ma intanto il pagliaccio aveva vinto e lo avrebbe rifatto ancora, nell’89, stavolta per verdetto unanime dei giudici, nel match che sui cartelloni era stato pubblicizzato a caratteri cubitali come Uno Mas. Peccato per i fischi: Leonard colpiva chirurgico, pulito.
Il pubblico però voleva il sangue di Durán. Erano le mani di pietra a infiammare la gente.
Intanto, per Roberto era iniziata la discesa. Nel mezzo del terzo match con Leonard, Wilfred Benítez e Marvin Hagler. Due incontri, altrettante sconfitte. Ma contro Marvelous sarebbe riuscito tirare fino all’ultima campana. Perché l’età incalzava, anche se quel diavolo di un panamense lo voleva negare. Andò avanti e vinse ancora, ma perse quando la posta era importante. Per due volte dovette cedere a Vinny Pazienza, poi a Héctor Camacho, contro cui chiuderà la carriera, il 14 luglio del 2001. Appena un mese prima aveva compiuto cinquant’anni.
Il bacio a de Jesús, l’onore delle armi
Appesi i guantoni, il fin troppo classico post carriera di chi aveva avuto tutto ma partendo dal niente. Tanto cibo, troppo alcool. Un fisico che s’allarga, lo costringe a operarsi per salvare vita e salute. I soldi sperperati, tre volte in bancarotta. Sette figli a cui badare. Eppure quell’aurea magica che ancora lo avvolge, a detta di molti di peso leggero più forte di tutti i tempi. Sicuramente quello più spettacolare. Quello che voleva solo picchiare, ma un cuore ce l’aveva eccome. A Leonard non strinse neanche la mano, ma quel de Jesús che lo aveva battuto per la prima volta in carriera finirà anche per baciarselo. Perché il portoricano ormai stava salutando la vita, per la troppa eroina e l’Aids. È l’89 quando giace in un letto di ospedale, Durán poggia le labbra sulle sue, incurante di un possibile contagio e di quella malattia così bastarda. Perché “i grandi uomini vanno onorati. L’onore merita rispetto”. Amen.