Editoriali
08 Settembre 2024

Le Paralimpiadi, la guerra e noi

Se a Parigi abbiamo scoperto un'umanità superiore.

Fuor di retorica è l’essenza vera e profonda delle cose: perciò, ben oltre le solite formule da lessico elettorale – inclusione, barriere, riscatto – le Paralimpiadi di Parigi hanno in pochi giorni offerto esempi, storie e vicende capaci di scardinare ogni narrazione, ribaltando le consapevolezze di milioni di spettatori (oltre a farci sobbalzare il cuore ben 71 volte). La cruda e sublime realtà dei giochi paralimpici si staglia ancor più impattante quando, durante Italia v Slovenia di sitting volley, il cronista spiega che lo strapotere di alcune nazionali, su tutte la compagine iraniana maschile, deriva dai tanti mutilati che la guerra offre.

Un commento capace di accendere la coscienza collettiva su un evento, le Paralimpiadi, affermatosi nel tempo come serbatoio prezioso e inaspettato di ritratti illuminanti quanto misconosciuti: storie che talvolta diventano pop, instillano curiosità e certificano l’autoironia come metro di intelligenza sociale.

È il caso della pesista non vedente Angela Legnante, che commentando l’argento dichiara “voglio andare a Los Angeles 2028 perché non ho mai visto l’America”, per poi rettificare “beh, non la vedrò neanche stavolta, però voglio andare in America”, o di Riggi Ganeshamoorthy, che col suo “che ve devo di’?”, “un po’ troppi disabili forse” è già idolo nazionale e icona social [1]. Si tratta di esistenze segnate da malattie rare, patologie ignote dai nomi impronunciabili, storie d’amore e di morte, destini tragici che lo sport trasforma in atleti ed esempi.

Inoltre, come anticipato in apertura, la guerra come avviamento alla carriera paralimpica è purtroppo denominatore comune a molti: Yevhenii Korinets, paramedico volontario ucraino, dopo aver subito l’amputazione della gamba sinistra a Bakhmut, nel marzo 2023, ha scoperto un’insperata carriera nella nazionale di sitting volley [2], dove ha ritrovato il capo plotone di fanteria Dmytro Melnyk [3], commilitone prima e ora compagno di squadra: “La nazionale ucraina mi ha ridato la vita quando ero sicuro di averla persa per sempre” ha detto Korinets, aggiungendo poi “tutte le discipline sportive dovrebbero essere diffuse ancora di più nelle nostre città, in modo che i veterani di guerra, resi fragili dalle ferite, non stiano a casa senza sapere cosa fare, rischiando depressioni”.

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Vicenda simile è quella di Fadi Aldeeb, cestista su sedia a rotelle, unico atleta palestinese a Parigi, nato nella Striscia di Gaza e rimasto paralizzato nel 2001 durante la seconda intifada, a causa di un proiettile israeliano alla schiena: nella recente riacutizzazione del conflitto, Aldeeb ha perso suo fratello e due nipoti. Ad inizio paralimpiade ha dichiarato: “Ci sono tanti sentimenti, tante responsabilità. Non parlo di me stesso, non gioco per me stesso. Sono qui per tutti coloro che dicono di essere palestinesi, per tutti coloro che parlano di umanità e della libertà della Palestina. Quando alzo la bandiera provo un grande senso di responsabilità, ma anche tristezza”.

Ci sono poi i Giochi come evasione e via di fuga: è il caso di Claudine Bazubagira, atleta ruandese sparita da dieci giorni, probabilmente per accedere allo status di rifugiata politica, o di Zakia Khudadadi, rifugiata evacuata dall’Afghanistan, stabilmente trasferitasi in Francia dopo che i Talebani, al potere nel 2021, l’avevano minacciata di morte.


Una serie di esempi tremendi e impressionanti, capaci di far riflettere soprattutto a partire dal capovolgimento retorico rispetto alle precedenti Olimpiadi, caratterizzate più che mai dalle ridondanti e vuote narrazioni sui diritti, sulle sedicenti e arbitrarie categorie di oppressi che puntualmente parlano dalla parte privilegiata del mondo e della storia e che pertanto oppressi non sarebbero, e dai trend social che diventano manifesti politici, scioperi di comodo e barricate di piazza.

Il confronto tra Paralimpiadi e Olimpiadi evidenzia il contrasto di prospettive tra la nobile libertà di chi è padrone di tutto perché tutto ha perso e l’accidiosa presunzione di chi in fondo è nullatenente perché abituato a poter avere ogni cosa.

La consapevolezza dei primi è la stessa di Tyler Durden in Fight Club – “è solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa” -, mentre il carattere dei secondi è ben colto da Ennio Flaiano, quando col solito acume annotava che “quando l’uomo non ha più freddo, fame e paura è scontento”. Dunque, Parigi 2024 ha evidenziato il divario sostanziale tra due opposte dimensioni: quella della cultura del piagnisteo [4], di un Occidente annoiato, con le airpods alle orecchie e i disturbi post traumatici da stress, che in Raven Saunders et similia si ritrova e proietta, e quella ben più gravosa e nobile che celebra la vita vera e ritrovata, l’esistenza desiderata e piena, l’adesione ad una missione alta e superiore al di là di tutto.

Se le lacerazioni sul corpo degli atleti sono le sferzate delle malattie, della storia e della guerra, le gesta atletiche sono la pronta e perentoria risposta al destino, la porta chiusa in faccia alla morte. A Parigi, nel giro di un mese, abbiamo potuto osservare tutta la differenza tra lo spirito post storico, tipico del nostro tempo, e lo spirito in movimento – motto delle Paralimpiadi 2024 – di chi anela ad un’esistenza totale. Certamente, dal punto di vista psicosociologico entrambi i fenomeni sono conoscibili, comprensibili, forse anche razionali e sovrapponibili, ma dal punto di vista strettamente umano non è possibile restare indifferenti davanti allo iato esistenziale tra i due approcci. “È la vita”, ha capito Riggi, in sedia a rotelle, con le cannule al naso e il sorriso sul volto: la vita veramente, verrebbe da dire, ed è tutto qui.


[1] https://www.corriere.it/sport/olimpiadi/24_settembre_02/rigivan-ganeshamoorthy-che-devo-di-il-campione-del-mondo-e-l-intervista-piu-esilarante-delle-paralimpiadi-b752b278-c44a-4071-871e-9111036cfxlk.shtml

[2] https://www.vaticannews.va/it/mondo/news/2024-08/ucraina-paralimpiadi-parigi-guerra-russia-medaglie.html

[3] “La sua [di Melnyk, ndr] gamba sinistra è stata ferita in un incidente quando aveva solo 18 anni e ora è più corta di qualche centimetro. Quando è in piedi, il suo piede sinistro è in punta di piedi, mentre il piede destro è appoggiato a terra. Nonostante questo handicap, l’ufficiale ha fatto di tutto per convincere i suoi superiori a entrare nell’esercito. Il suo reclutamento? Lo deve alla sua determinazione e a “un po’ di astuzia”, ha detto. Dmytro Melnyk non ha fornito ulteriori dettagli, ma ha scherzato sul fatto che quando è con le sue truppe, finge di zoppicare perché i suoi stivali sono troppo stretti. Il pallavolista ha detto di aver prestato servizio come operatore di droni prima di diventare ufficiale di fanteria”.

[4] Cfr. R. Hughes, Adelphi

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