Debiti, lotte intestine e contraddizioni scuotono la federazione sudamericana.
Anno 2014 prima, anno 2017 poi. E’ il mese di marzo, il calcio argentino si ferma. Immagine impietosa, duecento e più squadre in sciopero. Il sindacato calciatori rinvia l’inizio del torneo di tre settimane proclamando uno sciopero generale, reclamando il pagamento degli stipendi arretrati di tutti i giocatori, dalla prima all’ultima divisione. Una presa di posizione forte, che paralizza il movimento. Nessuno va in campo.
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Antefatto. La Fifa a giugno 2016 pone l’Afa – la Federcalcio argentina – sotto tutela nominando una “Commissione normalizzatrice” presieduta da Armando Perez che ufficializza i debiti della Federazione, pari a 30 milioni di euro. La commissione è incaricata di gestire il massimo ente calcistico argentino fino alle elezioni del nuovo presidente, fissate per il 30 giugno 2017. Nel frattempo, il CT Gerardo Martino scappa a gambe levate con otto mesi di stipendi arretrati, il timone passa a Edgar Bauza e la situazione – come se le sventure non fossero abbastanza – precipita anche sul rettangolo verde. Pochi mesi prima, a condire il tutto, la precoce eliminazione dell’Albiceleste ai Giochi olimpici del 2016, poi lo sciopero degli arbitri. Si vengono così a formare due blocchi dopo la scelta della commissione normalizzatrice e in vista delle elezioni: la sfida più accesa è quella tra Angelici, presidente del Boca, e Tinelli, presidente del San Lorenzo.
Ai limiti del grottesco, da teatro dell’assurdo degno di penne come Beckett e Ionesco, la votazione per il nuovo presidente Afa. Per farla breve, i votanti dovrebbero essere un numero ben definito: finisce pari e patta, ma la somma dei voti è superiore al numero degli aventi diritto al voto. Tinelli, presidente del San Lorenzo, si alza e se ne va. Siamo al paradossale. Sipario. Una risata ci seppellirà, se non ci fosse da piangere. Ultima ma non meno importante questione, la nuova formula del campionato a 30 squadre (al posto delle storiche 20 a sfidarsi in tornei di Apertura e Clausura) costrette a spartirsi i fondi statali. I fondi statali, già. Perché i mali partono da lontano e sono strettamente collegati alla situazione economica del Paese, vicina ad un nuovo e pericolosissimo default (nel 2001 fu micidiale). Statalizzare il calcio ha dato vita ad un buco nero in cui è stato risucchiato tutto il sistema. Rendere il futbol popolare e visibile a tutti: nobilissimo intento. Futbol Para Todos, creato ad hoc dall’ex presidentessa Kirchner, peronista di sinistra e sostenuta dal centro-sinistra, però fallisce. La gestione dei diritti Tv in Argentina, dall’agosto 2009, avviene attraverso un piano lanciato dal Governo, che avrebbe accumulato, già nei primi anni della sua attivazione, un debito di circa 102 milioni di dollari proprio con l’AFA, a causa della mancata attualizzazione dei valori del contratto.
Interessante il contributo della rivista online Sport Economy, che analizza didascalicamente i passaggi che hanno portato a questa situazione. E’ il 2015 quando sale al potere Macrì, diventando il primo presidente democraticamente eletto che non appartiene né al partito di centro (UCR), né al partito peronista. Questo dal 1916. Macrì si forma all’Università Cattolica, è neoliberista. Ma soprattutto è, cosa non trascurabile, presidente del Boca dal 1995 al 2012. Postilla a margine, il patron attuale del Boca, Angelici, è il miglior amico d’infanzia di Macrì, “comodamente” parcheggiato su quella poltrona dal Presidente della Repubblica d’Argentina. Torniamo a noi. Per niente convinto di proseguire nella politica attuata dalla Kirchner, nel dicembre 2016, il Governo rescinde il contratto con la Federazione. La decisione accende la miccia con l’AFA costretta a trovare dal giorno alla notte nuovi acquirenti per i diritti televisivi e oltre il 60% dei club strangolati dai debiti. Salvo poi ripensarci in marzo, sborsando 350 milioni di pesos – intervento di oltre 22,35 milioni di euro – per provare a rimettere tutto in sesto. Stavolta, come detto, a mettersi di traverso è stato il sindacato calciatori, pretendendo il pagamento degli arretrati accumulati da tutti i club dalla prima alla quarta divisione e facendo pressioni perché il denaro non passi dalle casse dei club, pronti ad alleggerire le proprie posizioni finanziarie senza farsi troppi scrupoli.
Per la cronaca, in questo momento, nella terra che ci ha regalato Osvaldo Soriano, Marcelo Bielsa e Juan Roman Riquelme e un sacco di altre cose dalla struggente malinconia, si gioca. Si gioca e sono le imprese private a finanziare il calcio argentino, tra queste ci viene in mente la TNT. Accompagnati, sempre, da un’inevitabile struggente malinconia, l’ultimo Boca-River giocato il 14 maggio scorso a La Bombonera è finito 1-3 vendicando il 2-4 del Boca al Monumental del mese di dicembre. Quel campionato, il più complicato degli ultimi decenni, lo ha vinto il Boca. Al momento, i grandi club come River Plate, San Lorenzo – politicamente affini ed “alleati” – e Boca Juniors, duellano su tutto ma su una cosa sono d’accordo: non vedono di buon occhio la riforma sportiva del campionato. Competitività, la motivazione ufficiale. Il campionato a 28 squadre, chiamato Superliga, è iniziato da poche giornate. Vede battagliare Boca e River, con i secondi autori di un’impresa memorabile in Copa: 8-0 al Monumental nell’ultimo turno dopo aver perso l’andata in Bolivia per 3-0. E a voler essere spudoratamente ottimisti, se guardiamo le questioni prettamente di campo, appunto, quelle che puzzano di erba e maglie rancide, il calcio argentino sta(va) trovando la via: Sampaoli, tra le più reazionarie menti calcistiche del paese, prende la guida tecnica della Nazionale maggiore alla fine della scorsa stagione, e non è cosa da poco dopo il vergognoso “interregno Bauza” vissuto ai limiti della credibilità (il 28 marzo l’Argentina perde in Bolivia 2-0 e tocca il punto più basso delle ultime gestioni). Fulgida cabeza – per chi scrive – e illuminato del pallone con la benedizione di Bielsa, acclamato Santone il cui verbo è credo ineludibile, e del movimento tutto, Sampaoli parte forte.
Gli auspici sono i migliori prevedibili, ma risultano purtroppo solo un effimero bagliore in fondo alla più buia delle notti: partendo dal tridente Dybala-Higuain-Messi regola infatti il Brasile in “amichevole”, a giugno, con gol di Mercado, manco a dirlo uno dei suoi uomini con cui ha divertito l’esigente pubblico di Siviglia nella parentesi andalusa. Ma il buio più totale arriva a cavallo tra agosto e settembre, a Montevideo un’inguardabile nazionale – a voler utilizzare un pallido eufemismo – non va oltre lo 0-0 e l’ultimissimo Venezuela già fuori da eventuali giochi-qualificazione, pochi giorni dopo, impone il pari 1-1. Si ripete così, da tempo immemore, la perpetua paradossale cantilena del popolo argentino orfano di Maradona e di trofei, capace di criticare chi Maradona lo avvicina più di tutti. E anche se non è un Paese per Messi, la Nazionale, almeno fuori dagli uffici, l’ha salvata proprio Leo che, tornato al suo posto, ci riproverà in Russia nel 2018.
Scrittore di gialli tradotti in tutto il mondo, autore di successo di opere teatrali, racconti sportivi e serie tv, ma prima di tutto tifoso del Napoli. Maurizio de Giovanni ce ne parla in questa lunga chiacchierata.