Calcio
07 Marzo 2018

Guerra del futbol

Come (e perché) il calcio ha dato il via ad una guerra.

Sappiamo tutti (o quasi) del calcio al poliziotto di Boban e della maxi-rissa durante la partita tra Dinamo Zagabria e Stella Rossa del 1990. Quei fatti furono in seguito indicati come il preludio alla guerra d’indipendenza croata, nonché come uno degli episodi più emblematici della fine della Jugoslavia. Molto meno noto è quello che accadde nell’estate del 1969 tra Honduras ed El Salvador. Due piccoli Paesi, vicinissimi e molto simili, che passarono da una semifinale per la qualificazione al mondiale di Mexico 70 ad un sanguinoso conflitto armato: dal pallone al fucile. Per raccontare questa storia però è necessario ripercorrere però gli avvenimenti, politici e sociali, che contribuirono a fare di un incontro di calcio il casus belli di una violenta guerra, che causò più di 2.000 vittime.

PREMESSE POLITICHE

Gli Stati di El Salvador e Honduras sono due repubbliche situate nell’America centrale. I processi storici, politici e sociali che hanno caratterizzato i due Paesi sono molto simili (del resto i due territori sono confinanti), e in entrambi i casi l’indipendenza, giunta nel primo ventennio dell’Ottocento, ha generato un susseguirsi di vuoti di potere colmati con una serie di colpi di stato e dittature militari. Il susseguirsi degli eventi non può dunque che partire dalla destabilizzazione politica di cui gli Stati in questione sono stati loro malgrado protagonisti. Ciò ha comportato che, già qualche anno prima di quel fatidico 1969, i rapporti tra El Salvador e Honduras fossero molto tesi, quasi sul punto di esplodere.

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El Salvador – caratterizzato da un territorio molto più limitato di Honduras – oltre a rivendicare uno sbocco sull’Atlantico, era contrario al monopolio della sovranità da parte Honduregna sul Golfo di Fonseca, fondamentale crocevia commerciale. La situazione non migliorò quando il governo degli Stati Uniti, nella prima metà degli anni sessanta, decise di intraprendere l’esperienza poco concludente del “Mercato Unico Centroamericano”, spingendo parecchi investitori (per non dire speculatori) ad operare in quella zona. Da queste manovre tra l’altro deriva l’espressione dispregiativa Repubblica delle banane, che indica genericamente un regime dittatoriale e instabile, in cui le consultazioni elettorali sono pilotate, la corruzione è diffusa e si registra una forte influenza straniera: Honduras ed El Salvador, in fin dei conti, erano questo.

Le immense piantagioni di banane che caratterizzano il paesaggio delle due Nazioni

Questi progetti tuttavia si concentravano nei territori già dotati di infrastrutture e di un minimo progresso tecnologico, ed El Salvador in questo era avvantaggiato. Dopo un’iniziale periodo di benessere e incremento lavorativo, la popolazione Salvadoregna venne comprensibilmente caratterizzata da un boom demografico, che generò una crisi sia sul piano lavorativo che sociale (data la scarsità di terreni coltivabili, non occupati da piantagioni di banane). La soluzione si risolse attraverso un accordo che prevedeva per i cittadini di El Salvador di poter risiedere e lavorare nel più vasto e disponibile territorio dell’Honduras: furono 300.000 i contadini ad intraprendere la migrazione. Se da un lato l’accordo andava incontro alle urgenti esigenze di El Salvador, dall’altro non era apprezzato dai contadini Honduregni, che richiedevano migliori condizioni di lavoro, salari più elevati e nuove politiche pubbliche.

Proprio nel 1969, il Presidente dell’Honduras (successivamente dittatore) Oswaldo Lòpez Arellano avviò un processo di riforma agraria, che tra le varie misure prevedeva la confisca e la redistribuzione dei terreni. Ovviamente il presidente, che non intendeva rompere i buoni rapporti con le Corporations Statunitensi – in possesso di gran parte dei terreni coltivabili – decise di confiscare proprio le terre assegnate qualche anno prima agli agricoltori di El Salvador, che furono successivamente rispediti in patria. I rapporti diplomatici tra i due Paesi si ruppero inevitabilmente, generando le premesse per quella che sarà definita come guerra del futbol o guerra delle cento ore, un conflitto che, malgrado sia durato pochi giorni, ha causato migliaia di vittime.

“Quando non può andar peggio di così, lo farà” (Edward Aloysius Murphy)

Nello stesso anno (1969), ad infiammare la situazione cascano le qualificazioni per i Campionati Mondiali di Calcio di Mexico 70. Sia Honduras che El Salvador dominano i rispettivi gironi qualificandosi così per le semifinali che, se da un lato vedono la sfida tra gli Stati Uniti ed Haiti (vinta dagli ultimi), dall’altro propongono proprio l’incontro tra le due Nazioni, già ai ferri corti sul piano politico.

L’approdo finale

ANDATA

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L’andata si gioca l’8 giugno 1969 a Tegucigalpa, in Honduras. L’attesa è febbrile e sono tutti ben consapevoli, dalle istituzioni alla stampa, che quella non sarà solo una partita di calcio. Gli ospiti giungono con un giorno d’anticipo, per cercare di limitare gli eventuali disordini che potrebbero scoppiare: il clima è incandescente, e si ha l’impressione che da un momento all’altro possa succedere qualcosa. La stessa trasferta salvadoregna si rivela un vero e proprio percorso ad ostacoli, fin da quando i tifosi di casa prendono di mira l’albergo, bersagliandolo tutta la notte e appesantendo una situazione già molto delicata.

Il giorno successivo, quando le squadre si affrontano sul terreno di gioco, gli animi si esacerbano ulteriormente. La partita è molto “maschia” e le reti rimangono inviolate fino a che, ad un minuto dal fischio finale, i padroni di casa si portano in vantaggio sull’ 1-0. All’esterno si verificano violenti scontri tra la popolazione locale ed i Salvadoregni presenti, e il bilancio finale parlerà di numerosissimi e anche un morto. La cosa strana è che non si trattò di un decesso legato all’irruenza dei tifosi di casa, anzi, non si verificò nemmeno in Honduras. Nella sua casa di San Salvador, davanti alla propria tv che trasmetteva la partita, la diciottenne Amelia Bolanos fu sopraffatta dal dolore, prese la pistola del padre e si sparò un colpo al cuore.

“La giovane non ha retto al dolore di vedere la sua patria in ginocchio” (Prima pagina del quotidiano di San Salvador “El Nacional”)

Le premesse per un ritorno incandescente a questo punto, e maggior ragione, vi erano tutte. Il presidente Salvadoregno decretò il lutto nazionale e si espresse molto aspramente nei confronti di quegli avversari che, adesso, erano considerati dei veri e propri nemici della patria.

Di lì a breve la situazione degenererà, lasciando spazio alla propaganda e all’organizzazione militare

RITORNO

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Il ritorno si gioca il 15 giugno 1969 a San Salvador. Il clima è ancora più teso rispetto a quella dell’andata, e i salvadoregni sono intenzionati a creare i presupposti per intimidire gli avversari e per cercare una rivalsa. I giornali sono scatenati, mentre i sostenitori accolgono la squadra di casa sventolando la foto della giovane ragazza suicidatasi sette giorni prima. Anche questa volta l’albergo degli ospiti è preso d’assedio: i tifosi non si limitano però a circondarlo e a generare il massimo frastuono, nè a bersagliarlo con oggetti, ma distruggono addirittura le porte e le finestre. Servirà la scorta dell’esercito per permettere alla nazionale dell’Honduras di giungere, la mattina seguente, allo stadio. In un ambiente così ostile i giocatori ed i tifosi ospiti rischiano il linciaggio, e la partita si conclude con un netto 3-0 per i padroni di casa.

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“Chissà a risultato inverso cosa ci sarebbe successo”, pensano i calciatori Honduregni. Anche questa volta fuori dallo stadio si verificano diversi scontri che causano due morti, centinaia di feriti e diverse auto date alle fiamme; nel frattempo, in Honduras, vengono saccheggiate e danneggiate le abitazioni dei pochissimi Salvadoregni rimasti. La parentesi calcistica di quello che diventerà un violento conflitto militare, però, è destinata a non concludersi qui. In quegli anni le regole della CONCACAF prevedevano uno spareggio secco in campo neutro, in caso di parità tra andata e ritorno (non si verificava il moderno conteggio dei gol tra le due partite, ma ogni partita aveva valore singolo). Le due squadre, quindi, avendo vinto rispettivamente una partita a testa furono costrette a sfidarsi nuovamente per la resa dei conti.

La vittoria honduregna, festeggiata con la bandiera nazionale

SPAREGGIO

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La partita decisiva si gioca a Città del Messico, in campo neutro, il 27 giugno 1969. Le violenze che hanno preceduto questa importante sfida, sia in un Paese che nell’altro, saranno niente se paragonate a quello che sarà indicato come il casus belli della guerra. Già qualche ora prima della partita, puntualmente, la situazione si manifesta in tutta la sua drammaticità: la prorompente presenza di 5.000 agenti in antisommossa non basta, e immancabili si scatenano gli atavici scontri tra le due fazioni. La partita passerà in secondo piano, e per tutti i 90 minuti si verificheranno disordini sia all’interno che, soprattutto, all’esterno dello stadio Azteca.

Sul terreno di gioco tuttavia il match è ricco di emozioni. Al 10° minuto El Salvador passa in vantaggio anche grazie alla complicità dell’estremo difensore avversario, il quale si vede la palla passare attraverso le gambe e gonfiare la rete. Passano però pochissimi minuti e l’Honduras agguanta il pareggio grazie ad un potente tiro, che tocca il palo ed entra in porta. Il tabellone segna il 32° ed è ancora El Salvador a portarsi avanti grazie ad un’altra disattenzione difensiva dei rivali, doppietta dell’attaccante Martinez. All’inizio del secondo tempo Honduras spinge di più, ed infatti al 50° minuto trova il pareggio. Il resto della partita passerà con poche occasioni per entrambe le parti: le due squadre non rischiano, anche perché decisamente troppo alta è la posta in palio.

Si va ai supplementari in uno stadio in cui gli scontri non sono mai cessati, la tensione è alle stelle ed i giocatori in campo sentono tutto il peso di un potenziale conflitto armato sulle spalle. Se paradossalmente in guerra vi è la possibilità di intraprendere un armistizio – e banalmente lo definiremmo in termini puramente sportivi un “pareggio” – , in una secca semifinale di calcio giunta ai supplementari questa possibilità non è prevista. Ecco come s’intrecciano i destini dei due Paesi, in un’altalena di emozioni che culminano al 101° con il gol di Mauricio Rodriguez e che porta il risultato sul 3-2 per El Salvador.

Il trionfo dei vincitori sulle prime pagine dei giornali.

Una rete pesantissima che segnerà per sempre la storia non solo calcistica, ma soprattutto politica, di entrambe le nazioni. Da qui in poi la partita tra i due Paesi proseguirà sul versante militare, dando inizio a quella che il grande giornalista polacco Kapuscinki chiamerà per primo La guerra del fùtbol. Una guerra combattuta tra due attori dotati di strumenti molto esigui (velivoli e armamenti in dotazione agli eserciti risalivano addirittura alla seconda guerra mondiale) che tuttavia causò circa duemila morti e seimila feriti, in buona parte civili. Il ruolo del calcio nel conflitto resterà primario. Del resto grazie alla sua natura questo gioco si presta a diventare un enorme fenomeno sociale, una rappresentazione simbolica (e non solo) in cui tradurre la schimttiana dicotomia amico/nemico;

In questa occasione i governi dei due Stati se ne servirono come catalizzatore, acuendo le tensioni politiche e legittimando le drastiche scelte intraprese, per poi cementare la coesione nazionale con la voglia di rivincita. Il pallone come strumento, nel caso dei governi; il pallone come rivalsa, nel caso del popolo. El Salvador in seguito vincerà anche il confronto con Haiti qualificandosi alla fase finale del torneo, dove tuttavia terminerà ultima con zero reti segnate. Sarà l’estate della partita del secolo, quell’Italia–Germania 4-3 giocata proprio allo stadio Azteca, teatro un anno prima della partita che sancì l’inizio del conflitto tra Honduras ed El Salvador.

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