Euro 2024 è un manifesto della mediocrità del calcio europeo.
Nel sentire analisti, commentatori, telecronisti esaltare in modo così smisurato – a tratti sguaiato – la Spagna di De La Fuente ho avuto un po’ una sensazione da Istituto Luce, laddove giornalisti di regime si trovano a glorificare le sorti dei ‘propri’ governi (e il regime odierno da perpetuare/vendere è quello dello “spettacolo” calcistico e della sua continua esaltazione) o, più banalmente, laddove chi racconta questo sport è costretto a gonfiare anche l’ultima amichevole estiva e a fabbricare assoluti alla disperata ricerca di contenuti in un mondo, quello del calcio, che di memorabile offre sempre meno.
Intendiamoci: questa Spagna è ad oggi di gran lunga la miglior nazionale del torneo. Una nazionale forte, fresca, spumeggiante, dotata di ottime individualità, che è riuscita a creare un mix perfetto di più e meno giovani e anche di stili – o meglio caratteristiche – di gioco, abbandonando il feticismo da possesso palla per diventare più ‘verticale’ e appoggiarsi alle qualità decisive dei singoli, capaci di capitalizzare il gioco espresso e di creare occasioni, pericoli e soprattutto superiorità numerica. Per citare Fabian Ruiz al Paìs:
«Ci piace avere la palla, lo si vede dalle partite. Ma quando siamo in area avversaria cerchiamo di concludere. Insomma bisogna sfruttare il mix, calciatori che sanno tenere la palla e quelli che hanno più verticalizzazione. Io e Rodri abbiamo più palla, siamo calciatori di pausa; Nico e Lamine sono veloci».
Una felici sintesi di caratteristiche ma anche di caratteri, se è vero che «nel mondo del calcio quello che attira l’attenzione sono i giocatori che fanno l’uno contro uno, quelli veloci, come Lamine o Nico. E poi ci sono calciatori come Rodri che hanno un ruolo fondamentale nella squadra e attirano meno l’attenzione», ma anche come se stesso: «Non mi interessa avere un calcio appariscente. Non è una delle cose che mi emozionano. Preferisco concentrarmi sugli altri giocatori. E a me resta il lavoro sporco. Mi sento più a mio agio nella discrezione». Il punto di Fabian: servono entrambi, perciò questa Spagna funziona.
Non potremmo essere più d’accordo, aggiungendo anche una nota di merito all’allenatore – quel De La Fuente che ha saputo creare un gruppo libero, funzionale, efficace, motivato – e poi cedendo all’appariscenza di Lamine Yamal, perché se fai quel gol in un quarto di finale contro la Francia significa che hai il calcio dentro, che sei giocato ancor prima di giocare, come diceva Carmelo Bene; più che un giovane consapevole maturato in fretta, come l’ha descritto qualcuno, un diciassettenne (a giorni) rimasto fanciullo nel senso letterario, poetico e fenomenale del termine; perché una rete simile la mette a segno a 16/17 anni solo un ragazzo libero, un artista e un creatore sul rettangolo verde che gioca secondo le sue regole.
Leggi, approfondisci, rifletti. Non perderti in un click, abbonati a ULTRA per ricevere il
meglio di Contrasti.
Abbonati
Questa Spagna insomma in relativo è una grandissima squadra, non c’è dubbio, ma in assoluto non sono affatto convinto che lo sia. Ha dei punti deboli e dei limiti, emersi a tratti contro la Germania ma che nessuno ancora è stato in grado di evidenziare fino in fondo (la solidità difensiva e la tenuta psicologica, con la gestione dei vari momenti della partita quando questa esce un po’ dai binari predefiniti e “si sporca”, modificando il copione del match) e secondo chi scrive non è al livello non solo delle migliori nazionali degli ultimi vent’anni, ma nemmeno delle migliori Spagne recenti.
Eppure, in un contesto impoverito come quello di questo europeo, non è detto che il livello serva alzarlo e che i limiti prima o poi emergano, pure per vincere (la stessa Italia di Mancini aveva, probabilmente, criticità mai venute fuori). Così in questo europeo tedesco, uno dei più mediocri dal punto di vista qualitativo, una squadra come l’attuale Spagna può splendere in tutta la sua bellezza laddove a manifestarsi, però, sono la bruttezza, la stanchezza e l’approssimazione del livello generale e delle altre grandi nazionali. Squadre arrivate stanche, senza idee, senza anima – e pure gli ormai folli calendari giocano in questo un ruolo decisivo.
Dalla Francia, che ha disputato un torneo imbarazzante, e tutti credevamo alzasse il livello nelle fasi finali del torneo mentre è rimasta drammaticamente la stessa squadra incapace non solo di segnare, ma anche di accompagnare l’azione, alla Germania, che ha evidenziato le solite lacune soprattutto di tenuta e gestione (malgrado una partita, quella contro la Spagna, che avrebbe potuto e forse dovuto vincere); dall’Inghilterra, abituata a giocare male ma che stavolta si sta superando, esprimendo un calcio angosciante, al Portogallo, che non ha mai davvero ingranato.
La verità è che in questo europeo, e tanti non possono dirlo perché lo ‘vendono’, si stanno vedendo giocatori esausti e un livello tattico, tecnico, atletico e caratteriale a dir poco approssimativo.
Forse è fisiologico, laddove ad essere onesti anche il torneo vinto dall’Italia non è stato una competizione memorabile, e che pure però siamo stati capaci di portare a casa grazie alle nostre risorse e capacità umane (oltre che tecniche e tattiche) mancate clamorosamente alla Nazionale di Spalletti. Questo è l’unico rimpianto, che in una competizione del genere se fossimo stati una squadra solida e dall’identità definita, arcignamente ma anche genialmente italiani, avremmo potuto senz’altro fare una figura migliore, e poi chissà. Invece, anziché renderci conto della realtà presente, abbiamo peccato di ottimismo e fiducia – ingiustificati, visto il materiale a disposizione. Ma questo è un altro discorso.
Fatto sta che nel momento in cui, al termine della partita di ieri, un Lele Adani quasi posseduto strilla nei microfoni – facendo da contraltare alla voce volata via del sempre professionale Bizzotto – che «la Spagna ha fatto calcio in faccia ai francesi» e tanti commentatori esaltano oltremodo la Roja, la mia impressione è stata quella di assistere ad una narrazione di regime: con i giornalisti che, come gli inviati di guerra nei primi anni ’40, tra le macerie generali continuavano a dire che andava tutto bene, sempre meglio. Niente va bene, niente va per il meglio. Ma lo show, in qualche modo, deve pure andare avanti.