Restituite la diversità cromatica ai kit delle nazionali.
“È una merda essere scozzesi”, recitavano i protagonisti di Trainspotting. Anche a questo Europeo la discesa equilibrista di Archie Gemmill del ‘78, palla al piede, nell’area Olandese sembra rimanere un affaire per i nastri delle VHS. Come quella che serviva da panacea a Renton e amici davanti allo sconforto sportivo della Scozia di metà ‘90, che solo per la differenza reti mancava il passaggio del girone di qualificazione di Euro 96.
A quasi trent’anni di distanza non c’è pace, a questa merda dell’essere scozzesi. Nemmeno la soddisfazione di una maglia capace di passare alla storia, come quella che l’Umbro confezionò, per gli europei inglesi, alla Tartan Army attingendo nel pattern alla sua identità nazionale, fatta di kilt e clan.
In Germania qualcuno, per cortesia, ricordi alla Uefa, all’Adidas e alle tivù che il monocromo (o acromo) sta bene solo sulle tele di Fontana, Manzoni e Castellani. Al massimo nel guardaroba dei Provo olandesi o dei drughi di Arancia Meccanica, per questioni iconografiche. Sul Leeds United e sul Casale, per questioni di storia.
La Germania giochi con i calzoncini neri, la Scozia con quelli bianchi (e preferibilmente i calzettoni rossi).
L’ossessione del monocromo compie dieci anni ad Euro 2024, introdotto in occasione dei mondiali brasiliani secondo un diktat FIFA che chiedeva agli sponsor tecnici di andare incontro alla resa cromatica degli schermi HD. Dieci anni di kit discutibili e prontamente obnubilati alla stessa velocità con cui le maglie vengono cambiate e presentante, tra edizioni speciali, improbabili terze maglie per il cui uso si stipulano amichevoli fittizie, ed editoriali inclusivi a cui forse nemmeno quelli della moda (i nuovi coloni del pallone) credono davvero.
Dieci sono gli anni in cui anche il tifo sembra essersi adeguato – in questo caso su spontanea iniziativa, forse per una inspiegabile tensione del tifoso-consumatore al ludibrio autoimposto che correda le pitture facciali e le parrucche. Anche chi per attitudine non vuole conformarsi (leggasi il manipolo ultras al seguito dell’Italia) non ha potuto resistere alla seduzione del monocromo. In questo caso al fascino – Celine insegna – del total black, che tanto racconta dell’omologazione che oggi attanaglia – da est a ovest, da nord a sud – chi per definizione dovrebbe spingersi, per l’appunto, ‘oltre’, nella vita di stadio come nel corredo iconografico.
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Se in passato i soli brasiliani e olandesi avevano fatto del muro cromatico la cifra estetica che li distingueva in tutti gli stadi del mondo, oggi sembra di assistere a partite di fronte a un pubblico simulato da un videogioco, olè a comando comprese. Dopo una dozzina di partite, è sorto spontaneo chiedersi se questi europei non fossero una grande simulazione dell’AI. Poi, fortunatamente, lo stinco di Barella ha riportato tutto sul piano della realtà.
Tempo poche stagioni e anche le squadre strisciate si arrenderanno all’immacolato (si fa per dire, tra sponsor, toppe e rattoppi dai messaggi a sfondo sociale) charme del monocromo. D’altronde, già oggi, di schiena si fatica a distinguere i giocatori di Milan e Inter dai generici omini rossi e blu del biliardino, nel costruttivismo interrotto di righe monche e sospese.
A proposito di trame costruttiviste, poco resta della scacchiera pensata da Miroslav Šutej nel 1990 per la prima divisa della Croazia indipendente, anch’essa arresasi al fascino dell’uniforme. C’è da immaginare la confusione e lo sconforto in cui sprofondarono i nostri padri e nonni a tenere conto delle sette reti tra Italia e Germania ai mondiali messicani del ‘70, senza le divise monocrome. Per fortuna, ci salverà l’HD.
E chissà cos’altro ci aspetta nei restanti 40 e più match a cui le televisioni ci preparano tronfie. Gli italiani sembreranno delle bottiglie di Gatorade, gli inglesi dei panettieri, gli olandesi degli Uniposka, gli svizzeri, i danesi e i serbi il Liverpool, quasi come nei vecchi cataloghi del Subbuteo, dove per economia di mezzi squadre cromaticamente simili venivano accostate ad un’unica ‘ref’ numerica. C’è da domandarsi se riusciranno anche a stravolgere il kit da trasferta belga, passando dall’omaggio ai costumi di Tin Tin a quello degli altri eroi nazionali, i Puffi.
A proposito di completi, ci sarebbe poi da scrivere di quello disegnato da Giorgio Armani – eccellenza italiana – per lo staff italiano. Ma questo è soltanto un articolo, non un miserere.