Cultura
12 Marzo 2020

Il D'Annunzio sportivo

Un ritratto del Vate attraverso lo sport.

Tempo fa è arrivato alle mie avide mani di lettore l’insolito Gabriele D’Annunzio, l’inimitabile atleta: Sport e super-omismo di Sergio Giuntini, un approfondito saggio sulla fervente attività sportiva del Vate. Ebbene questa, secondo il testo, è più sviluppata ed estesa di quanto la storia ci tramandi, e possiamo addirittura dividerla in quattro fasi. La prima fase sportiva è quella “panica, ricondotta alle iniziali esperienze e alle vacanze estive fuori dal Collegio Cicognini di Prato, frequentato dal 1874.

Ogni volta che può ritornare nella natia Pescara infatti D’Annunzio non resiste al richiamo delle nuotate nel Mar Adriatico  a cui attribuirà le proprie “leggendarie” – origini, ed alle escursioni sul Gran Sasso. Ancora, l’infanzia vede sbocciare una delle sue passioni più veementi, l’equitazione. Il baio Aquilino è il compagno delle prime marachelle, seguito poi da Silvano, l’arabo bianco dei tempi del Cicognini. Successivamente l’irrequieto Undulna è il destriero della maturità, nonché responsabile di una delle sue più rovinose cadute. A testimonianza dell’enorme sentimento provato nei loro confonti, troviamo i tre animali in vari componimenti come “Il Libro Segreto”, “Notturno”, “Primo Vere” ed “Alcyone”.

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Un legame letterario perchè pratico

L’attrazione per il mare, il sole, il nuoto e l’equitazione introducono in effetti due lati fondamentali del personaggio D’Annunzio, quali l’attività fisica e la maniacale cura dell’aspetto. Sin dagli esordi, l’opera del Vate verte sull’inscindibile binomio Arte-Vita, o meglio “Scrivere-Vivere”, caratterizzato proprio dalla ricerca della perfezione estetica tramite il proprio corpo. Si trattava di strappare l’arte, la letteratura e la poesia ai circoli intellettuali; di infrangere l’ipocrisia borghese con l’estremismo estetico ed estetizzante, visibile nella pratica quotidiana in una nuova “maschera”, non più quella prudente del conformismo al ribasso ma quella sprezzante e audace della volontà di potenza.

Tornando a noi, non poteva certo mancare lo sport in questa cornice. Il secondo momento del D’Annunzio sportivo è caratterizzato dall’esotismo delle discipline che giungono dall’estero. Se il nascente football d’oltremanica non ne accende il ricercato interesse, non si può affermare lo stesso del ciclismo. “La mia ruota ad ogni raggio / è temprata dal coraggio” scriverà tra una corsa e l’altra; in seguito l’attrazione per il pericolo e la velocità trasformeranno le due ruote in quattro, quindi in ali per la conquista dell’etere.

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Qui con Tazio Nuvolari: due amanti della velocità

Nel 1895, cogliendo l’opportunità offerta da una crociera in Grecia, organizzata con alcuni amici, D’Annunzio visita le rovine di Olimpia, sede degli antichi giochi. Se da un lato il viaggio non restituisce particolari spunti compositivi, dall’altro ispira al Vate un’illuminante verità: nella mitologia contemporanea gli sportivi assurgono al ruolo di super uomini ellenici. La cronaca del XX secolo è in grado di esaltare le gesta dell’atleta, ponendogli sul capo l’alloro degli eroi omerici trasfigurati a loro volta in moderni ubermenschen.

L’esaltazione dei caratteri superomistici aveva già rappresentato una delle basi su cui era stata ordita la trama de’ “Il Piacere”, romanzo del 1889, che aveva consegnato il suo autore alla celebrità letteraria e non. In queste pagine la figura teorizzata da Nietzsche è in parte incarnata proprio dal protagonista, Andrea Sperelli, personaggio dai forti tratti autobiografici. Successivamente, dopo una decade di anni nella tenuta toscana “Capponcina”, alcova della relazione con Eleonora Duse, gli ingenti debiti costringono D’annunzio a riparare Oltralpe nel 1910, introducendo la terza fase sportiva.

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D’Annunzio e Glenn Curtiss, pioniere dell’aviazione

In Francia è subito accolto nei salotti più elitari, e naturalmente è invitato a condividere i passatempi dei loro sofisticati ospiti. Il periodo mondano è così contraddistinto da battute di caccia alla volpe e frequentazione delle tribune di cinodromi ed ippodromi, su cui scrive i resoconti migliori. Tra Parigi ed Arcachon infine si cimenta anche nel tennis (forse però più per la nutrita presenza di giocatrici, che per interesse prettamente tennistico). Inoltre, affinata la tecnica della scherma, si impegnerà in diversi duelli per amore, ideologia, oppure onore, che però confermeranno la maggior pericolosità della penna rispetto alla spada, almeno nel suo caso. Durante una serata nella capitale poi, il Vate assiste per caso ad un incontro di boxe e ne rimane ammaliato: installato un punchball nello studio, diviene un appassionato praticante.

Scoppiata la Grande Guerra, egli rientra in Italia pronto a trasferire le sue prodezze dal ring al campo di battaglia, estrema manifestazione della performance agonistica. Ecco che, per il Vate, l’esercizio fisico funge da preparazione per la scena bellica, tragica sublimazione degli sport muscolari e motoristici. È l’esaltazione dell’ideale della “guerra sportiva”, incarnata dal corpo scelto degli Arditi ed alla base dell’Interventismo, fortemente propugnato da D’Annunzio e dai Futuristi. Tra le sue gesta belliche, la più eclatante è certamente il volo su Vienna: il 9 agosto 1918 infatti, sorvolando la capitale dell’impero asburgico con una squadriglia di aeroplani, lanciò migliaia di volantini esortando i viennesi alla resa.

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Testo di Ugo Ojetti

Che il Poeta soldato riesca a compiere una delle sue imprese più mirabolanti proprio a bordo di un “velivolo”, termine da lui stesso coniato, può essere considerato come un omaggio del destino. «Non penso che a volare, è un nuovo bisogno, una nuova passione» racconta prima del “battesimo” in aria, avvenuto in occasione del Primo Raduno Aereo d’Italia a Montichiari nel settembre 1909. Qui, dopo un primo tentativo deludente, sull’apparecchio di Mario Calderara finalmente esordisce nell’etere, moderno Icaro, anelante di vette elevatissime in spregio ad Apollo. Proprio il volo sarà protagonista del romanzo Forse che sì, forse che no, opera di transizione narrativa tra il periodo mondano ed il quarto periodo, quello eroico.

Conclusa la Prima Guerra Mondiale, sulle ali della Vittoria mutilata, il 12 settembre 1919 D’Annunzio entra a Fiume alla testa di circa duemilacinquecento ribelli dell’Esercito Regio, a cui si uniscono vari volontari. Durante la concitata esperienza nella “Città di Vita”, occupata fino al Natale 1920, il Comandante non solo concede allo sport ampio risalto nella Carta del Carnaro, ma coglie l’occasione di offrire il suo genio anche al calcio.

Infatti nel febbraio 1920 è prevista un’amichevole celebrativa tra la rappresentativa fiumana, in maglia neroverde stellata, ed una formazione di legionari, in divisa azzurra con uno scudetto tricolore, identico a quello esibito proprio dal Vate in occasione del volo su Vienna. Che sia stato un omaggio a D’Annunzio oppure un’altra delle sue trovate non si sa con certezza, tuttavia dal 1924 l’emblema verrà cucito sul petto dei campioni d’Italia.

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Estetica e rivoluzione, D’Annunzio in mezzo ai legionari

In seguito al “Natale di sangue” tramonta anche il periodo eroico, così lo “Sportivo dell’anno del 1922”, eletto dalla Gazzetta dello Sport, si ritira a vita privata nella Villa del Vittoriale, a Gardone, che diviene meta di pellegrinaggio per sportivi di ogni genere. Tra di essi si ricordano l’aviatore Francesco De Pinedo, di cui è conservata un’elica dell’idrovolante con cui compì il volo a tappe di 55000 km nel 1925, gli atleti della Nazionale Olimpica di Amsterdam ’28 e vari rappresentanti di squadre di canottaggio, disciplina calorosamente sostenuta dal Vate per la similitudine tra ali e remi, ispirata dal verso dantesco De’ remi facemmo ale al folle volo.

Infine, nel 1932 anche Tazio Nuvolari, asso dell’automobilismo, è ricevuto a Gardone. L’intenso incontro si conclude con il dono di un portafortuna da parte di D’Annunzio, appassionato di motori sin dalla prima ora: «All’uomo più veloce del mondo, l’animale più lento» dichiara, consegnando al pilota una tartarughina, sulle fattezze della sua defunta Chelì.


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Alberto Fabbri

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