«Non c’è mai stato nessun segreto, nessun trucco, non sono diverso. I risultati si ottengono con l’impegno, senza via traverse. Esiste solo il lavoro, la fatica».
Queste parole oggi suonano in maniera diversa, come quando cambi le corde rattrappite alla tua chitarra, sì un po’ vintage, ma con un suono da paura. Eppure c’è un momento in cui il destino, con un suo diretto destro, ti può mettere al tappeto. Silenzio. Nessun rumore nel corpo e nell’anima di un uomo, di un campione. In questi casi o ti lasci cadere raschiando il fondo del barile oppure guardi in faccia lo stesso destino che ti ha crivellato di colpi e scegli, scientemente, con responsabile deliberazione, di affrontarlo. È il 23 novembre 2013: Giorgio ha provato cosa vuol dire cadere. Il Madison Square Garden è vestito con abiti da cerimonia, alzando gli occhi al cielo Petrosyan ripensa alla sua vita, alla strada fatta per arrivare a New York. Non è solo fortuna, è desiderio di trionfare.
C’è, però, chi crede nel destino come motore pulsante della capacità cognitiva e analitica. Dal destino dipendono le circostanze, le decisioni collettive o le scelte individuali. C’è invece chi crede nella forza della scelta. Soren Kierkegaard ce ne dà un saggio nella sua opera più celebre che prende il nome di Aut-Aut: «La scelta stessa è decisiva per il contenuto della personalità; Quando si parla di scelta che riguardi una questione di vita, l’individuo in quel medesimo tempo deve vivere».
La storia di Giorgio Petrosyan è inevitabilmente una storia di scelte ma anche e soprattutto di talento. Il piccolo Gevorg, nato il 10 dicembre del 1985, ha per prima cosa scelto di vivere, forse la scelta più difficile della sua intera vita. Non è come optare per un middle-kick o un montante, scegliere di vivere in territori come l’Armenia degli anni ’90 è l’atto più coraggioso che possa essere richiesto ad un bambino che cresce all’ombra della fame e della guerra. Da Erevan, capitale armena, dopo la dissoluzione dell’Urss nel ’91 partono cargo pieni di uomini affamati che sono chiamati a combattere con l’Azerbaijan nella stupida e sporca guerra del Nagorno Karabakh.
Il piccolo Petrosyan non ha nessuna intenzione di fare la fine dello zio costretto, invece, a scappare sui tetti ogni qual volta suonassero al campanello in preda a psicosi da “fronte”. Andrei Petrosyan, padre di Giorgio, probabilmente non ha mai letto Kierkegaard ma prende la prima grande scelta della sua vita influenzando quella della sua famiglia: carica sul cassone di un camion Giorgio e Stepan, uno dei fratelli Petrosyan, partendo per un viaggio estenuante e clandestino verso una terra dove far crescere i propri figli e sfuggire alla violenza. L’Italia, luogo d’arrivo del camion, fa al caso loro.
La realtà, scopre ben presto Andrei, è tutt’altro che rosa infatti l’arrivo a Milano è devastante. Giorgio dopo 10 giorni di viaggio si presenta in terra italica con febbre alta e in preda alla fame. I Petrosyan dormono in stazione, fanno da spola tra Milano e Torino per chiedere aiuto alla polizia in qualità di rifugiati ma la risposta è sempre uguale: il silenzio. Approdano a Gorizia, accolti dalla Caritas, affamati e provati mentalmente prima ancora che fisicamente. Se il destino ha voluto che si fermassero a Gorizia, è altrettanto vero che sia stato Giorgio ha scegliere la sua strada, quella di combattere e diventare una leggenda nel K-1. Il K-1 è uno sport da combattimento che trova le sue origini in Giappone, per decenni è stato protagonista con il più grande torneo di arti marziali al mondo: un precursore dell’Ufc, del Glory o del One Championship. Per vincere questi tornei, dove i migliori si affrontano, devi essere necessariamente Il Migliore.
Prima di affrontare i più grandi kick-boxer della storia Giorgio affronta la fatica dell’integrazione a Gorizia, sgomita per essere rispettato sulle strade e a scuola dove spesso i ragazzini, poco abituati a fare i conti con l’altro, lo additano come uno “straniero di merda”. Sceglie ancora una volta di resistere. A scuola scazzotta per farsi rispettare. A casa, invece, dopo la razione quotidiana di Van Damme o Bruce Lee, corre per strada a provare le tecniche per ore e ore.
«Mio padre mi diceva di faticare e che la mia opportunità sarebbe arrivata, se mi alzavo tardi sabato e domenica mi faceva sentire in colpa, se sono quello che sono è grazie a mio padre».
Andrei Petrosyan la sa lunga e, infatti, grazie al primo maestro dei Petrosyan, Alfio Romanut, arrivano le prime grandi opportunità. Giorgio inizia a combattere per il mondo. Colleziona 25 vittorie consecutive per poi fermarsi a fare i conti con la prima sconfitta in carriera avvenuta in Thailandia.
Prima di praticare il K-1 Giorgio si è cimentato nella Muay-Thai che gli ha aperto le porte del successo. Il 19 maggio del 2007 il giovanissimo Petrosyan affronta, sostituendo Parr, il mostruoso Buakaw Pro Pramuk, il più influente esponente della Muay-Thai moderna. L’incontro è uno spettacolo di corpi in movimento coordinati e duri come la roccia, una serie di gomitate, calci e pugni di una pulizia tecnica unica. “The Doctor”, il soprannome che da quel giorno Petrosyan si porta dietro per la grande caratura tecnica dei suoi colpi, non sfigura e non mostra nessuna paura.
Più volte i contendenti si scambiano colpi di pregevole fattura riuscendo a non far pendere l’ago della bilancia, né da un lato né dall’altro, di fatti l’incontro termina con un pareggio che sa di vittoria per il Dottor Petrosyan, artista del KO. Da quel 19 maggio del 2007, la leggenda si fa uomo e Giorgio sente per la prima volta di aver trovato il modo di percorrere quella strada, scelta parecchio tempo fa, fatta di sudore e sacrificio che ne consacrerà il suo successo mondiale.
Nel 2009 e nel 2010 Giorgio si laurea campione del K-1 world Max GP, il torneo più prestigioso al mondo, divenendo il primo atleta nella storia a vincerlo per due volte consecutive. Durante la prima finale del K-1 GP affronta il temibile olandese Andy Souwer. Andy è già stato campione del K-1 GP, è esponente della scuola olandese di K-1, una delle migliori al mondo, ed i favori del pronostico sono i suoi. Pronostici che si sgretolano contro la realtà del ring.
A Tokyo Petrosyan domina l’esperto kick-boxer olandese che tenta, durante le tre riprese, di mettere in difficoltà l’italo-armeno abilissimo nello schivare i colpi e ripartire di rimessa. I calci precisi di Souwer si infrangono sulle tibie d’acciaio di Giorgio che, nel corso della seconda ripresa, colpisce con due ganci al viso l’avversario mandandolo al tappeto grazie ad una ginocchiata al fegato. Souwer si rialza e continua a combattere sempre in balia dell’avversario che lo bracca come un cacciatore dal fucile spianato. È il preludio di una vittoria senza mezzi termini che arriva inesorabile e per verdetto unanime allo scoccare dell’ultima campana. I sacrifici vengono ripagati di fronte a trionfi di simile portata ma a Petrosyan non basta, è famelico e vuole riconfermarsi.
Ancora una volta Tokyo quindi, nel 2010, dà la possibilità a Giorgio di entrare nella storia. La finale con il beniamino di casa Yoshihiro Sato è ricordata per due motivi: il primo riguarda il traguardo storico del kick boxer italo-armeno, unico fighter a vincere il torneo per due volte di seguito, mentre il secondo motivo riguarda il modo in cui ha battuto Sato, per gli addetti ai lavori una masterclass di calci e pugni. Le tre intere riprese non registrano significativi colpi da parte del giapponese impegnato a cercare di resistere alle bordate di Petrosyan che lo fa vacillare con un montante al mento durante la prima ripresa, proseguendo con uno sfiancamento che provoca a Sato l’apertura di vistose ferite al volto. La decisione è ancora una volta unanime, Petrosyan tocca il cielo di Tokyo con un dito e ripensa a quanta strada è stata fatta, pensa a quante ore di camion ci vogliano per percorrere la strada che da Erevan porta a Tokyo.
Nel 2012, dopo i problemi finanziari per il circuito K-1 e la sua successiva disgregazione, diventa campione del circuito Glory, creato per raccogliere l’eredità del colosso giapponese. Nella finale di Roma sconfigge l’olandese Roosmalen per decisione unanime, dopo uno scontro ostico ma controllato agevolmente da Petrosyan. È l’ennesima cintura alzata per aria, è l’ennesima vittoria del Dottore. C’è ancora però qualcosa che non va. I giornali parlano poco di lui, giusto qualche trafiletto qua e là, mini-servizi televisivi a ricordare come un campione che non giochi a calcio, nonostante porti in alto il tricolore, non abbia il permesso di vedere le luci della ribalta.
Novembre 2013, New York, Madison Square Garden: il tempio della boxe, prestato al K-1, per le semi finali del Glory. Nella vita di uno sportivo arrivano anche i momenti duri. Giorgio assaggia il sapore amaro della sconfitta nel cuore di Manhattan. L’occasione era la più ghiotta possibile, una semi-finale Glory che poteva portare al secondo titolo consecutivo ma anche e soprattutto a vedersi riconosciuto come cittadino italiano a tutti gli effetti, forse il titolo più importante inseguito per parecchi anni da Giorgio. Il Dottore sul ring affronta il giovane Andy Ristie, fighter longilineo ed elusivo.
Dalle prime battute il copione sembra scritto con Petrosyan che controlla l’avversario sfruttando una maggiore abilità tecnica. Poi il momento di massima tensione, Petrosyan nel corso della seconda ripresa accusa una frattura alla mano ed a inizio della terza ripresa subisce un KO devastante da parte di Ristie. La testa gira, le orecchie fischiano, il tetto del Madison sembra crollargli a dosso. I fantasmi si affacciano ad accarezzargli le tempie doloranti. Anche gli Dei possono cadere.
Inizia un periodo di grande riflessione per Giorgio che si porta dietro i pensieri più cupi e la pressione di chi è sempre costretto a vincere. Ha dichiarato più volte di aver cercato di rialzarsi e di rimettersi in pista ma non riusciva a farlo, il dottore artista del KO messo in ginocchio da sé stesso. Un lungo stop di un anno è la prova di come Giorgio abbia affrontato le sue paure, proprio come Bruce Lee in Dragon. Chi affronta i propri timori e le proprie incertezze è un uomo, chi le ribalta a proprio vantaggio per diventare ancora più forte è un campione e Giorgio lo è senza discussione alcuna.
Il bimbo venuto da Erevan nel 2014 ritrova le motivazioni conquistandosi la cittadinanza italiana per meriti sportivi, grazie all’interessamento di Giorgio Brandolin ed a una telefonata ricevuta, dopo la vittoria del Glory nel 2012, dall’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Questo però da solo non può bastare a farlo ritornare sul tetto del mondo, serve continuare a scegliere di combattere, è una questione di vita e scegliere significa vivere. Il concetto di scelta qui si interseca con quello di talento. Il talento è inscindibile dal senso di responsabilità, devi dimostrare di meritartelo ed essere un campione pluri-premiato non basta.
Cechov, ancora, ci dà una visione nitida del concetto di talento: «il talento è l’audacia, lo spirito libero e le idee ampie».Tutte caratteristiche che Petrosyan non ha innate. Lui ha scelto di averle e di coltivarle. La sua forza di volontà lo ha portato a rialzarsi e a conquistare, dalla sconfitta del Madison, 15 vittorie consecutive e il titolo One Championship, nell’ottobre 2019, che ha portato in dote anche un premio di un milione di dollari, un premio del genere fino ad allora non era mai stato erogato verso un artista marziale.
Ecco perché Petrosyan è importante per l’intero movimento sportivo italiano. Ecco perché è il classico sportivo che trascende lo sport divenendo esempio di resilienza, di integrazione e appartenenza. Ha sgomitato per ottenere il riconoscimento di essere un italiano anche per “legge” ed ha sempre portato sul quadrato una sola bandiera: il nostro tricolore.
Giorgio è un campione che da solo ha acceso i riflettori su uno sport considerato meno importante di altri, trascinandosi il macigno dell’indifferenza. Va assolutamente protetto per tutto ciò che fa e rappresenta.
La storia di Petrosyan è quella di un ragazzo che ha sconfitto il destino, facendolo a pezzi con una ginocchiata. È la storia di chi ha lavorato duro e di chi ha scelto ogni giorno di essere migliore, di essere ciò che ha sempre voluto. È la storia di chi ha scelto di vivere.