Nel nuovo romanzo dello scrittore partenopeo il calcio e Napoli giocano un ruolo fondamentale.
La vida es una tombola (la vita è una lotteria), sussurra un cantastorie latino nato sulle rive della Senna: Manu Chao. La parabola beffarda delle ambizioni del suo canto può riassumere il romanzo che meriterebbe di vincere il Premio Strega 2020: Giovanissimi di Alessio Forgione, pubblicato da NN Edizioni.
Pagine di prima mano, che raccontano l’acerbo disagio dell’adolescenza, immerso tra la necessità di uno sviluppo celere e la brama di prontezza sessuale da esporre ad amici diventati già rivali d’esperienze. Il fumo che diventa moto di ribellione low cost per conquistare un metro d’indipendenza negli spazi aperti di un’occulta fratellanza. Il calcio come ascensore sociale in grado sparare ossigeno nei polmoni: l’unico possibile.
Il protagonista è Marocco, adolescente gonfio d’insicurezze, abbandonato dalla madre, in solitudine col padre, playmaker dal talento cristallino dei giovanissimi della Pro Napoli: è uno di quei guaglioni al quale Maradona pensava con commozione poco prima della cinematografica presentazione al San Paolo in mezzo a 70.000 cuori:
“Voglio diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires”.
L’abbandono materno si insinua nelle tempie di Marocco tra le letture di Dylan Dog e le riflessioni sui fenomeni paranormali, diventando una ferita sempre più estesa, in grado di ribaltare il classico Complesso d’Edipo in Complesso di Medea, data l’uccisione infantile del protagonista che rinasce uomo nei giorni con un pallone attaccato al collo del piede e una pacata ribellione sui nervi.
Forgione lascia espiare in prima persona le colpe al protagonista, colpevole in parte della sua tragedia esistenziale, che non ammette patteggiamenti con la sorte, ricostruendo le tappe di uno scenario nel quale le sequenze di vita sul rettangolo di polvere sono raccontate con un’estrema cura dei particolari.
I tempi narrano un calcio già romantico, quello di fine anni Novanta inizi Duemila, che all’interno dei campi di periferia fotografa un ciclo immobile da secoli: la figura paterna del mister che non accetta un taglio di capelli sgargiante – in imitazione di Benny Carbone –o un brutto voto a scuola, ma che richiede al proprio stopper di fermare con ogni mezzo il numero 9 avversario che aveva colpito la squadra, rincarando la dose, «se ci riprova noi gli spezziamo le cosce»; gli scontri e le provocazioni in campo, dove non esistono VAR e televisioni, determinando che i conti si regolano secondo la legge del Far West; la sacralità dello spogliatoio, luogo di dolorose condivisioni, sudore nell’olfatto, dettami furiosi e goliardia necessaria.
Nel 1991, un anno dopo dell’ultimo Scudetto dell’asinello azzurro contro il Milan di Sacchi e degli olandesi, Pino Daniele si lasciava andare a una riflessione tra sacro e profano in Quando:«Il paradiso forse esiste». Forgione fa toccare con mano il paradiso dei ragazzi napoletani, magari del quartiere Soccavo, come Marocco, elevando, in questo frammento di Giovanissimi – nel quale il protagonista va nel bagno della scuola a fumare dopo un brutto voto in latino –,il grido del San Paolo che sposta il cielo:
«Entrai in bagno e volevo guardare fuori dalla finestra e salii in piedi sulla tazza. Appoggiai una mano sul muro, per essere sicuro di non cadere. Accesi. Aspirai. C’erano dei piccoli alberi e alcuni palazzi marrone chiaro e oltre mi convinsi che ci fosse lo stadio, anche se non riuscivo a vederlo. Una mattina, io e Lunno ci eravamo passati davanti e avevamo visto un cancello aperto ed eravamo entrati convinti di star facendo qualcosa di male. Seduti nella Curva B, settore inferiore, avevamo studiato tutta la scena e tutto era vuoto e i sediolini si rincorrevano uno dietro l’altro. C’era un silenzio che sembrava insolito o che io avevo reputato tale, perché tutte le volte che c’ero stato, allo stadio, le urla arrivavano fino in cielo e lo spingevano un po’ più in alto».
Una storia che si muove su più binari: infanzia-amicizia-amore-sud. Il primo, vede la perdita dell’innocenza del regista in erba a seguito della mancanza della madre, ma determina la ricostruzione dell’io bambino attraverso il catino di Fuorigrotta, citando Eugenio Montale: «Dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: a quello della sua stessa infanzia». Il secondo scorre sul filo sottile e pericoloso dell’amicizia con Lunno, ragazzo più grande, più esperto, una spina nel fianco di Marocco. Il terzo si consuma nel rapporto a sorpresa con Serena, una ragazza di verace dolcezza che dialogherà coi demoni del protagonista.
Il quarto è sensorialmente palpabile, grazie alla descrizione simbolica di momenti privati che si intersecano alla sfera pubblica di Napoli: il ritorno a casa del padre e del figlio dopo un’ottima partita – in cui il play aveva danzato in campo, diventando il cervello dell’undici – ornato dallo scoppio dei fuochi d’artificio, segnale dei camorristi dell’arrivo del carico di droga da distribuire e vendere nelle principali piazze. E poi il campo, fortemente il campo, con il revival di azioni chiave raccontate dall’autore direttamente sul terreno di gioco, riflettendo i suoi dieci anni di calcio agonistico.
«Nello spogliatoio il Mister ci spiegò che dovevamo essere fiduciosi delle nostre qualità e correre leggeri e giocare spensierati […] E nello spogliatoio faceva quasi caldo e qualcuno puzzava di sudore. Allacciai le scarpette e sbattei i piedi, perché ero pronto. Dopo nemmeno dieci minuti Fusco segnò grazie a me. La rubai a un avversario e corsi con la palla tra i piedi. Puntai il difensore e Fusco si mosse verso destra. Il difensore mi venne contro. La passai. Misi Fusco solo davanti al portiere e la palla entrò in porta. Corse ad abbracciarmi. Mi salì sulla schiena. Tutti ci vennero addosso».
Nella sequenza il protagonista vola sulle ali dell’entusiasmo: è fisicamente e mentalmente in forma distribuendo filtranti illuminanti alla Jorginho dell’era di Sarri; ha ricevuto da Lunno il numero di Serena poco prima del match ed è talmente carico che eseguirà una pennellata su punizione alla stregua di Andrea Pirlo.
«Io sistemai il pallone e le punizioni, di solito, le battevano sempre Gioiello o Fusco. Mancavano cinque metri all’inizio dell’area. Aggiustai il terreno con le mani. Il portiere, con la testa dietro il palo, urlava e faceva gesti alla barriera. Si posizionò a sinistra e la barriera era davanti a me. Avrei tirato al di sopra, a scavalcarla, verso l’incrocio dei pali. Il pallone sarebbe salito leggero e leggero sarebbe ridisceso. L’arbitro fischiò, calciai. Superò la barriera e il portiere non si mosse e fu più facile di come pensavo: il pallone entrò e mai, prima d’allora, avevo segnato una punizione».
Forgione scrive con le stesse intenzioni di Pier Paolo Pasolini in Ragazzi di vita, imprime uno stile godibile, dinamico, incisivo, senza tralasciare una plausibile amarezza, secondo la filosofia di narrazione di NN Edizioni. Inoltre, esegue un’operazione di democratizzazione linguistica: traduce il napoletano – prima lingua dei pensieri e dell’eloquio partenopeo – in italiano colloquiale, lasciando sporadici dialettismi e regionalismi, e offrendo, ai lettori nazionali e internazionali – vittime di castrazioni semiotiche sull’impatto semantico delle parole, che gli hanno impedito la comprensione del cinema di Troisi o il teatro di Eduardo De Filippo – la possibilità di accedere alle caratteristiche antropologiche del linguaggio.
Chiacchierando con Alessio Forgione, si può tracciare un giusto approfondimento sulla genesi dell’opera e il senso d’appartenenza sommerso.
Cosa rappresenta il calcio per un adolescente campano immerso in una vita di drammi e di stenti?
Il calcio, purtroppo, può rappresentare, per chi non ha altre possibilità, il solo mezzo per assicurarsi un futuro migliore, una dignità e un riconoscimento sociale. Dico purtroppo perché queste cose dovrebbero essere alla portata di qualsiasi individuo, in qualsiasi momento, a prescindere da tutto.
“Giovanissimi” dimostra come a volte il puro talento non basti per raggiungere un sogno. Le ambizioni sono fragilissime e possono andare in frantumi con un niente. Ci sono storie senza happy end che ti hanno ispirato nella costruzione della tragedia del protagonista, Marocco?
Mi hanno sempre molto affascinato le storie di quei calciatori che erano sul punto di prendere tutto ma che poi, per un motivo o per un altro, hanno raccolto molto meno di quanto ci si aspettasse da loro. Mi affascinano di più questo tipo di storie che quelle dei vincenti, o di certi vincenti, che non pensano ad altro che a vincere. Ispirazioni dirette, per questo romanzo, ti dico di no, che non ci sono. Modelli miei, personali, sì, e qui ti dico Lorenzo Insigne. Perché dire Insigne è dire Napoli, la città e non solo la squadra, e rappresenta, ai miei occhi, una persona, un uomo, un talento che, mattonella dopo mattonella, sta costruendo il suo percorso, umano e sportivo. Però questo è un lieto fine.
Lo spogliatoio, luogo sacro che mette a nudo gli istinti di chi lo vive. Tu che lo hai vissuto intensamente, che sensazioni ti ha scolpito dentro?
Ho giocato a calcio, a livello agonistico, per circa dieci anni. Dello spogliatoio mi piaceva l’aspetto tribale e per certi versi teatrale, in cui ognuno aveva il suo ruolo. C’era quello che scherzava, quello irascibile, quello ansioso, quello intraprendente e mi piaceva vedere i rapporti tra i vari personaggi. Poi sì, c’erano momenti di gioia, di rabbia e via dicendo, ed era bello non sentirsi soli nel bel mezzo delle proprie sensazioni.
Vorrei che Forgione ci raccontasse brevemente l’urlo del San Paolo che da Fuorigrotta abbraccia tutta la città.
Uno dei momenti più emozionanti della mia vita è stato quando Diego Armando Maradona è tornato al San Paolo, nel 2014, per la semifinale di Coppa Italia contro la Roma, e ne avvertivi la presenza ma non potevi esserne certo, perché al San Paolo non ci sono maxischermi, e tutti, tutti assieme, ogni settore, spontaneamente, incominciò a cantare “sai perché mi batte il corazón? Ho visto Maradona“. Sembrerà stupido dirlo, ma fu un’esperienza religiosa.
Spesso, nell’apologo del percorso del talento, a determinare l’epilogo è il vento. A Napoli o’ vientper un adolescente può essere funesto o rigenerante, ma in un senso o nell’altro, soffia sempre verso Fuorigrotta e si adagia come una dura carezza sul manto del San Paolo, rievocando le note di Clementino:
«Me sient’ song a voc e chi n’ten nient mentre parton’ e bastimient’ ce riman’ sultant’ o’ vient, o’ vient».