Giovanni Soldini nasce a Milano il 16 maggio 1966 e comincia a navigare in barca a vela da bambino. Ha alle spalle trent’anni di regate oceaniche, tra cui due giri del mondo in solitario (una vittoria e un secondo posto), sei Québec-Saint Malo (una vittoria nella categoria monoscafi), sei Ostar (due vittorie nella classe 50 piedi e classe 40 piedi), tre Jacques Vabre (una vittoria nella classe 40 piedi), e più di 40 transoceaniche.
A bordo del VOR70 Maserati ha stabilito il record Cadice-San Salvador e quello della Rotta dell’Oro percorrendo le 13.225 miglia di distanza tra New York e San Francisco in 47 giorni, 42 minuti e 29 secondi. Nel 2015, ha stabilito l’innovativo record della Rotta del Tè, coprendo in poco più di 21 giorni la distanza tra San Francisco e Shanghai. Con il trimarano Multi70 Maserati, ha stabilito il record anche sulla rotta Hong Kong-Londra.
Soldini non è mai sazio di navigare. La via del mare è sempre là ad attenderlo. La sua è una vita avventurosa nel senso più autentico della parola. Una vita alla continua ricerca di nuovi luoghi e nuove emozioni. Abbiamo avuto il piacere e l’onore di farcela raccontare.
“Nel gennaio del 1983 scappai di casa. Milano, la scuola, il mio futuro già scritto mi soffocavano. Mi sentivo in gabbia e soprattutto sentivo la necessità di prendere in mano la mia vita, assumere liberamente delle decisioni autonome, libero di provare a seguire quello che avevo dentro, le mie voglie, i miei pensieri. Non ero un buono a nulla e volevo dimostrarlo a me e agli altri. […] In un momento decisamente difficile della mia adolescenza, ho scientemente deciso che ciò che volevo fare era imparare ad andare in barca a vela.”
Disciplinare la ribellione, dare un senso al vuoto, riempire di sostanza i migliori anni dell’esistenza: ovvero diventare un marinaio. È grazie a una vendita di orecchini che avviene la svolta vera e propria della tua vita da lupo di mare. Ed è un orecchino quello che porti sul lobo sinistro, a testimoniare il traguardo di aver doppiato Capo Horn con i venti a favore. Un fil rouge simbolico che racchiude la tua essenza di lucido sognatore. Raccontaci di come sei riuscito a trovare la tua rotta.
Mah, sai, onestamente non saprei dirti se disciplinai molto la ribellione. Perché comunque in quegli anni non ero così disciplinato! (ride NdR). Lontano da casa maturai la convinzione di voler vivere a tutti i costi un’esistenza che mi permettesse di svegliarmi ogni giorno pieno di entusiasmo. Avevo un’ansia di continuare a viaggiare che mi divorava. E in quel viaggio in autostop per l’Italia pensai che potermene andare in barca a vela dove mi pareva sarebbe stato il massimo. Il problema è che all’epoca non sapevo navigare. O comunque non abbastanza. Avevo avuto solo qualche piccola esperienza da bambino. Quando poi incontrai casualmente Francesco Malingri durante la famosa vendita di orecchini artigianali che citavi, presi la palla al balzo. Aspettavo solo un’occasione. Il padre di Francesco, il grande Franco Malingri, è stato tra gli uomini più importanti della vela oceanica italiana. In quel periodo stavano per iniziare i lavori di costruzione di una bellissima barca da lui progettata, il “Moana 39”. Venni coinvolto nella vita di cantiere. Furono mesi bellissimi, lavoravamo come matti. Il resto è storia. La mia vera ribellione quindi è stata quella: continuare a seguire me stesso, fottendomene delle aspettative dei miei genitori. Certo, ci sono stati momenti difficili perché c’erano molte pressioni affinché ciò non accadesse. Non è stata una passeggiata, ecco. Fossi stato più remissivo probabilmente sarebbe andata diversamente.
Raccontaci di quando salpavi nel Lago Maggiore per raggiungere su ciascuna sponda le tue nonne. Cosa ha rappresentato nella vita di Giovanni Soldini la dimensione velica dell’infanzia?
Quella dimensione per me ha sempre rappresentato due cose: la libertà e l’autonomia. Prendere la barchetta e andarmene da solo per i cavoli miei: non chiedevo altro. Volevo crescere in fretta, bruciando ogni tappa. Probabilmente perché avevo due fratelli più grandi. La barca rappresentava la mia bolla di libertà e autonomia. E forse è rimasta così! È rimasta quella roba lì! (ride NdR)
“La barca è un piccolo mondo nelle nostre mani e noi, anche se a volte non lo sappiamo, possiamo gestirlo in maniera completamente autonoma. […] Questa è la ragione per cui su una barca a vela siamo sempre tutti apprendisti: le esperienze ci insegnano continuamente nuove cose.”
La vela come metafora della vita: rimane ancora oggi per te uno degli aspetti più affascinanti dell’andare per mare?
L’aspetto che rende interessante la vela è proprio questo. La barca è un piccolo mondo perciò i temi con cui ti confronti sono potenzialmente infiniti e quindi non smetti mai di imparare cose nuove. A partire da quelle pratiche: elettronica, medicina, cucina, motori. In barca è una sfida continua. Bisogna avere un atteggiamento mentale positivo di fronte a qualsiasi tipo di problema. Non hai alternativa.
Il senso dell’impresa, il significato dell’avventura: cose di cui noi esseri umani abbiamo tremendamente bisogno ma di cui troppo spesso, e colpevolmente, ci priviamo o siamo privati. Come diceva Hugo Pratt: “L’avventura è cercare qualche cosa, che può essere bella o pericolosa, ma che vale sempre la pena di vivere.” Parlaci in maniera più approfondita della tua personale concezione dell’avventura, della tua intima dimensione dell’impresa.
La mia concezione della vita implica la ricerca di certe emozioni che possono comportare anche momenti di sconforto o preoccupazione. Per me l’impresa significa cercare di realizzare un sogno, ponendomi degli obiettivi e quindi preparandomi al meglio. Tentare l’impresa è qualcosa che ti tiene vivo. Non è il livello che conta. Ognuno ha la sua asticella. Ognuno ha il proprio sogno. La nostra società cerca in ogni modo di privarcene, convincendoci che la priorità sia sempre e comunque la sicurezza. Un messaggio devastante, soprattutto per i giovani. Il pericolo esiste ma bisogna imparare a gestirlo convivendo con esso altrimenti dilaga la paura. Un po’ come stiamo vivendo adesso, invasi dal terrore. Dal momento in cui vivi, rischi. La verità è che devi essere già morto per essere veramente tranquillo. Tenendo i nostri figli sopiti e controllati, gli facciamo soltanto un gran male.
Amici: persone preziose. Anche per un lupo di mare. Checché se ne dica, chi va per mare non è necessariamente un misantropo. Anzi, è proprio il marinaio che più di tutti sa riconoscere il valore dell’autentica amicizia e dell’autentica lealtà. Cosa rappresentano gli altri per te?
Senza gli altri siamo persi. Le mie avventure per mare sono state possibili anche grazie all’aiuto di tanti amici. Persone con cui non ci si vede spesso, in molti casi, perché vivono dall’altra parte del mondo ma con le quali ho un legame indissolubile. Quando vivi delle esperienze così intense si crea un legame pazzesco. Un legame eterno oserei dire.
A proposito di legami umani, raccontaci della tua esperienza assieme ai ragazzi ex tossicodipendenti della comunità Saman nella costruzione della barca “Stupefacente” a Latina. Volevi provare ai più scettici che questo genere di imprese si potevano fare anche in modi diversi da quelli che andavano per la maggiore in Italia, giusto?
Quell’esperienza è stata quasi un atto politico. Mi sembrava una splendida idea riuscire a costruire una barca da corsa all’interno di una comunità perché in un’operazione del genere si sarebbe realizzata una trasmissione di know-how molto rivendibile. Un’occasione per dare una svolta alla vita di un sacco di persone. La vela italiana era ed è molto chic, soprattutto la vela dei protagonisti. Io mi sentivo diverso, per cui lanciai un messaggio: non costruisco soltanto una barca da corsa ma do anima ad un’esperienza di più ampio respiro. Un’esperienza condivisa che mi ha profondamente segnato in cui ho avuto l’occasione di stringere molte amicizie. Tra le più belle esperienze della mia vita, senza dubbio. “Stupefacente” è stata la barca a cui mi sono più affezionato e con la quale ho compiuto la mia più grande impresa, ossia il giro del mondo in solitaria. È stata una bellissima storia.
“I mari del sud sono qualcosa di estremamente affascinante: le barche corrono come mai, le onde sono più lunghe, i venti sempre sostenuti e gli uccelli marini hanno nomi bellissimi e affascinanti. Il cielo è sempre grigio e l’orizzonte, spesso difficile da individuare, si confonde con le creste delle onde e con le nuvole.”
I mari del sud sono speciali?
I mari del sud sono sicuramente un luogo molto speciale. L’uomo ci va molto poco, perché sono ostici da navigare. L’acqua è gelata, il vento soffia fortissimo, le onde sono enormi: la natura è padrona assoluta da quelle parti. A quelle latitudini se ci sono 30 nodi è normale. Quando il vento soffia più forte si possono raggiungere in scioltezza 70 nodi. E questo già rende l’idea di cosa stiamo parlando. A 3000 miglia dalla costa, quando ti trovi da solo sulla barca, sono aspetti su cui rifletti perché comunque non capita spesso di vivere certe situazioni. Situazioni che ti obbligano ad essere molto determinato e concentrato. Andare nei mari del sud da solo credo sia un’esperienza unica, di quelle che restano per sempre dentro. Quei frangenti sono terribilmente affascinanti.
Qual è stato il tuo ingresso in porto più memorabile? Quello a cui sei più legato, il più evocativo…
Difficile eleggere un porto specifico. Ogni posto in cui ho avuto occasione di attraccare ha un suo fascino. Anche se è vero che ci sono state città che mi hanno affascinato più di altre. Quando arrivi dal mare, e ci sei stato per tanto tempo, ritrovare la civiltà è uno shock pazzesco. In una città come New York, per citarne una, a maggior ragione. Perché ti rendi conto dell’inquinamento acustico e ambientale nel quale vivono milioni di persone. Roba da pazzi! Arrivare dal mare ti dà una visione di contrasto molto forte e ti permette di immergerti nelle parti delle città invisibili ai più: le banchine e i moli industriali. Rientri dalla porta posteriore, dove si vedono cose rare. A partire dall’umanità che lavora in quegli spazi. E ogni volta rientri un po’ cambiato.
Domare l’ignoto è solo un’illusione quando si va per mare?
L’ignoto non si doma. L’ignoto si scopre e basta. Non hai la possibilità di domarlo ma soltanto quella di scoprirlo, un passo alla volta. Il tempo quando si naviga è strano. Esiste solo il presente. È un po’ come entrare in un tunnel per poi all’improvviso ritrovarti a destinazione. Ed è un tunnel bellissimo! Certe volte vedi la luce e hai voglia di tornare dentro! (ride NdR)
Hai definito un patto di sangue quello hai stretto con la barca. Un patto che ti insegna a vivere meglio anche quando rimetti piede a terra. È per questo che non intendi smettere di navigare? Cosa ti spinge a riprendere continuamente la via del mare?
Navigare per me è semplicemente qualcosa di irrinunciabile. Sono un marinaio per cui dopo un certo periodo a terra il richiamo delle vele mi riporta in barca. Non ne posso fare a meno, altrimenti impazzirei!
Quali sono i ricordi dei tuoi passaggi a Capo Horn che conservi più gelosamente?
Quando ho doppiato Capo Horn la prima volta non ho dovuto affrontare condizioni così proibitive. La seconda volta l’ho doppiato con Isabelle, in un momento di felicità assoluta. Stavamo da Dio, ero troppo contento di averla trovata. Quel passaggio però fu più difficile del precedente. Siamo dovuti passare attraverso un canale molto stretto subito dopo il Capo tra l’isola degli Stati e la terraferma. Quando passammo noi c’era una corrente controvento tremenda e abbiamo rischiato di vedere la barca andare in mille pezzi. Per fortuna alla fine filò tutto liscio. O quasi. Ce la cavammo “solo” con qualche danno. L’ho passato anche in equipaggio, su Maserati, di bolina. Anche quella fu un’esperienza davvero emozionante. La rotta dell’oro è una navigazione pazzesca: parti da New York con il ghiaccio sul ponte e dopo due giorni ti ritrovi con 40 gradi all’ombra! Poi arrivi nei mari del sud ed è di nuovo un freddo cane, ripassi l’equatore e sei a San Francisco. C’è tutto! Poter condividere con dei compagni un’avventura simile penso sia il massimo. Condividere certe emozioni con gli altri non ha prezzo.
Quali sono state, invece, le esperienze peggiori che hai vissuto per mare?
L’esperienza peggiore in assoluto che ho vissuto in barca è stata la morte di Andrea Romanelli durante il record del Nord Atlantico: una tragedia impossibile da dimenticare. Mentre per quanto riguarda le allucinazioni, mi sono ritrovato in una situazione pericolosa soltanto in un’occasione. Durante la Ostar in solitaria con il trimarano, nel 2002, esausto dalla navigazione, avevo il terrore di addormentarmi e non svegliarmi più. Avevo una paura matta di perdere il controllo della barca e quindi iniziai a sentire un’ansia pazzesca. Non riuscivo più a dormire. Nelle ultime 48 ore della Ostar toccai il fondo delle mie capacità psicofisiche. Iniziarono le allucinazioni: vedevo tutti gli amici che mi avevano aiutato a preparare la barca là con me! Mi rivolgevo a loro, invano. Gli chiedevo: “Dai, dammi una mano a fare sta roba che sono sfinito!” e loro sparivano (ride NdR). Non fu così divertente, in realtà. Feci degli errori gravi nella gestione delle mie risorse. Per fortuna sono qui a raccontarli.
Quali sono, a tuo modo di vedere, le peculiarità della vela italiana?
Ci contraddistinguiamo per le nostre doti e per le nostre pecche. Noi italiani siamo piuttosto geniali nel trovare soluzioni fuori dagli schemi. Mentre gli anglosassoni, che sono più organizzati e inquadrati, hanno dei limiti in questo senso. La nostra genialità però è un’arma a doppio taglio. Spesso ci rende dei casinisti. A volte quindi bisogna riuscire a bilanciare. Ma noi siamo così, c’è poco da fare! Gli inglesi a bordo sono tremendi, una roba da spararsi in bocca! (ride NdR) Io preferisco di gran lunga navigare all’italiana!
Cosa ne pensi dell’avanzamento tecnologico che sta vivendo il mondo della vela? Le barche di America’s Cup oggi volano letteralmente sulla superficie dell’acqua.
Per fortuna l’America’s Cup dopo Valencia 2007 si è data una svegliata e ha iniziato a investire nel futuro. In quegli anni si parlava molto positivamente del fatto che potessero partecipare tante barche. Sì, è vero. Ma a vincere erano sempre le stesse tre! La gara vera la facevano quelle tre. Era così, inutile prendersi in giro. Quelle barche erano il passato. In quel periodo avevo un trimarano e all’Elba usavamo Mascalzone Latino come boa. Lo vedevamo all’orizzonte e gridavamo: “Andiamo a girarlo!”. Andavamo il triplo! In tutte le andature e con tutti i venti, sia di bolina che in poppa che al traverso. Non c’era storia! Quindi mi sembrava assurdo che in una campagna di Coppa America, nella quale si investono centinaia di milioni, si gareggiasse su imbarcazioni disegnate “dal nonno”. Da quando questo approccio è cambiato, la vela ha avuto un’iniezione di tecnologia e modernità che non si era mai vista prima. In dieci anni sono state costruite barche volanti di qualsiasi tipo. Questo è il futuro: ognuno deve vivere il proprio tempo. Le regate alle quali stiamo assistendo in questa edizione della Coppa sono a dir poco entusiasmanti. A quelli che dicono che non è match race, che non sono regate divertenti, gli farei rivedere le regate del 2007. A parte quattro o cinque momenti emozionanti, per il resto era una noia assoluta. L’avanzamento tecnologico ha dato nuova linfa al mondo della vela. Il monoscafo è stato letteralmente reinventato. Sono barche incredibilmente efficienti che mi affascinano da morire. In Coppa è troppo fico volare su acqua piana, dai! Io li invidio molto! (ride NdR) La scorsa estate ho avuto occasione di fare un giro come ospite su Luna Rossa ed è stato bellissimo. Poi va detto che ho la fortuna di essere capitano di un trimarano che vola quindi conosco bene ciò di cui si parla. Mi ritengo molto soddisfatto di essere stato tra i primi a far volare una barca in mezzo all’oceano.
Per chiudere in bellezza, scegli un film e due letture marinaresche a te care.
“Gli ammutinati del Bounty”, per quanto riguarda il film. “Tamata e l’alleanza” di Bernard Moitissier e “Il viaggio di Dove” di Robin Lee Graham e Derek L. T. Gill, per quanto riguarda i libri.