Calcio
06 Luglio 2018

Goodbye betting

Il governo verdeoro presenta il Decreto Dignità, tra le sue disposizioni il divieto di pubblicità per le società di betting. Un'opinione contrastiana.

Nel pomeriggio del 3 luglio, nella sala stampa di Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte ed il ministro allo Sviluppo Economico, al Lavoro e delle Politiche sociali Luigi Di Maio hanno presentato il c.d. Decreto Dignità. La tecnica di redazione legislativa, come da prassi italiana, lo rende un testo multiforme con all’interno una moltitudine di interventi in diversi ambiti dell’ordinamento, da quello giuslavoristico a quello fiscale, passando per programmazione economica e finanziaria.

La bozza dell’art. 8 – rubricata esplicitamente Divieto di pubblicità giochi e scommesse  statuisce, non senza eccezioni e con l’esenzione per i contratti attualmente attivi, il divieto per le società di betting di promuovere qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni ed internet. Una misura, nelle speranza dei suoi promotori, volta apertamente a contrastare le ludopatie ed aumentare la consapevolezza del consumatore.

Nel Regno Unito, patria del betting, si scommette sugli esiti delle General Election del 2015 (Photo by Peter Macdiarmid/Getty Images)

Il mondo del calcio, sia quello istituzionale che privato, appare in queste ore allarmato del possibile impatto economico che questa disposizione potrà avere sui già precari equilibri finanziari dei club di A e B. Un’ondata di proteste levatasi dal presidente della Lega di serie A Miccichè dettosi «preoccupato per la tenuta occupazionale e lo sviluppo del calcio italiano e del suo indotto», agli esponenti degli enti regolatori del giuoco e scommessa di Francia e Spagna, nonché, come auspicabile, da numerosi vertici delle società di betting presenti sul mercato italiano.

La principale argomentazione di chi si oppone all’introduzione di questo divieto risiede nel timore che la diminuzione del giro d’affari legato alle scommesse possa permettere la proliferazione di agenzie ed intermediari non autorizzati (nonsoloaams.net), riportando al sommerso (ed alla criminalità organizzata) l’enorme volume di danaro speso in scommesse. Ulteriore deterrente per il Governo sarebbe la perdita di un consistente gettito fiscale per le casse statali, definite dallo stesso Di Maio “drogate” a causa dell’ingresso di tasse legate alle scommesse. Il testo del Decreto dovrà passare il vaglio delle camere ma la maggioranza pare essere compatta sulla questione, l’art. 8 non dovrebbe quindi subire particolari rettifiche parlamentari.

Una ricevitoria della William Hill, una delle più famose società di scommesse al mondo. (Photo by Carl Court/Getty Images)

Formarsi una opinione definita sul tema è impresa difficile. L’imposizione di un divieto da parte dello Stato orientato ad una scelta etica è da sempre un tema di dibattito giuridico:una legge può essere promossa perché ha una finalità allo stesso tempo etica ed individualistica (mettiti il casco perché ti salvi la vita, e la tua vita ha un costo sociale), o perché questa finalità è sì etica ma ha ricadute sociali massive. La ludopatia, come la dipendenza da alcol e droghe, pare rientrare più nel secondo genere. Ogni qualvolta un modello di Stato moralizzatore, dagli esempi del dispotismo illuminato austriaco o prussiano del Polizeistaat, entra in conflitto con spinte liberali e liberiste che muovono dal mercato la sua visione paternalistica del mondo deve scontrarsi con il principio di realtà: quanto costa il benessere della collettività? La tanto abusata parola Welfare, in altri termini, rappresenta un’enorme voce di costo per i governi, difficilmente sopportabile in questa epoca. Un ideale di Great Society, come diceva Kennedy, che è costretto a fare i conti della serva.

Un paradigma di quanto si sta affermando si può riscontrare nel Volstead Act statunitense, più noto come Proibizionismo. Gli Stati Uniti non riuscivano a fronteggiare la piaga della dipendenza dall’alcol e, sotto la pressione lobbista delle cc.dd. Società di temperanza, promulgarono una legge federale che diede inizio sì al divieto di produrre, somministrare e vendere alcolici ma anche alla più grande epopea criminale che la Storia ricordi. In breve, per non fronteggiare il costo della sensibilizzazione e della promozione di consapevolezza individuale sui danni dell’eccessivo utilizzo di alcol, il governo si ritrovò a negoziare con potentati mafiosi per porre fine ad un fenomeno che era divenuto in 14 anni decine di volte più grande di quanto fosse nel 1919.

Dei clienti consumano alcolici in uno dei numerosi speak easy nati durante il Proibizionismo. (Photo by Keystone/Getty Images)

Tentare un paragone tra queste due leggi è oltremodo inopportuno. Si potrebbe facilmente opinare che il governo italiano intenda fare al mondo delle scommesse ciò che da decenni è stato fatto a quello del tabacco: non vietarne produzione e vendita ma renderne impossibile la promozione. Difficilmente si può polemizzare con un intervento legislativo che muove da questa premessa. Il problema di moralizzazione insito nel Decreto è che pone sullo stesso piano la ludopatia da slot machine con la più banale schedina domenicale sul campionato, senza per nulla intervenire sul primo fenomeno, assai più socialmente devastante. Il meccanismo alienativo delle slot, assolutamente disancorato da qualunque evento fattuale, genera secondo gli psichiatri un coinvolgimento emozionale unicamente con l’idea di scommettere contro una macchina (programmata appositamente per emettere vincite secondo un criterio attuariale), mentre nella secondo, che può certo portare nei casi estremi ad una dipendenza patologica dal gioco, il coinvolgimento emotivo rimane inevitabilmente legato all’evento sportivo. Si potrebbe dire, infine, che nella sua manifestazione standard il costo della scommessa di un appassionato di sport rientri nella sua propensione marginale al consumo che questo intenda destinare alla sua passione. Questa passione viene intercettata dalle società di betting che forniscono i servizi, vietarne tout court la promozione potrebbe davvero far rifiorire l’industria clandestina e condurre, potenzialmente, questo consumatore in una realtà deregolamentata e criminalizzata, con l’alto rischio di cadere nella trappola di una possibile ludopatia.

Il dibattito dovrebbe poi arricchirsi di una menzione al valore che il neuromarketing assume nelle pubblicità, soprattutto quelle legate agli eventi live, delle agenzie di scommesse durante gli eventi sportivi, nonché sulla fragilità del sistema di prevenzione per i minori (in questo senso pressapoco inutile, con i mezzi tecnologici a disposizione, il decreto Balduzzi del 2012 che vieta la possibilità di far passare sulle sole tv generaliste pubblicità di betting dalle 7 alle 22). Difficile comprendere il movente delle forze in gioco se da una parte vi è un interesse egoistico – quello delle società – e dall’altra parte un altro interesse egoistico, dello Stato – le proprie lotterie – non toccato dall’intervento. Un problema di conflitto di interessi verrebbe da pensare, se il governo intraprende iniziative in aperto contrasto con gli interessi di alcuni dei rappresentati per perseguire un proprio tornaconto egoistico. Il dibattito è quindi contenuto in una rete molto più intricata di quello che si possa pensare.

La miseria e l’alienazione cui conduce la ludopatia da slot machine (Photo by Bruno Vincent/Getty Images)

Per quello che compete l’opinione sportiva i punti di ulteriore riflessione sono essenzialmente due: quanto ha inciso il mondo delle scommesse sullo sport in senso stretto e quanto ritorno economico genera, tale perché sia imprescindibile la presenza di questi operatori nella filiera economica dello sport.

Sulla prima questione ci si dimentica, soprattutto in Italia, che il principale cancro da debellare è il coinvolgimento degli sportivi nel mondo delle scommesse. Il fenomeno, di cui è impossibile riportare gli innumerabili accaduti, è un emblematico esempio di agency dilemma. Lo sportivo che può influenzare o del tutto determinare l’esito di un evento sportivo su cui sono stati diretti ingenti investimenti a titolo di scommessa inquina gli aspetti più primitivi del rapporto emotivo con lo sport tra appassionati, atleti e diversi portatori di interesse, come le stesse società di betting, prima tra tutti la fiducia che in questi soggetti viene riposta dagli appassionati. Fiducia in una competizione leale e corretta. Il fenomeno è stato solo parzialmente contrastato negli ultimi 50 anni, dal punto di vista giudiziario e reputazionale, data la diffusa possibilità di reintegrare gli sportivi redentisi. L’aspetto, a nostro parere patologico, che genera questo problema notorio è collegato con la seconda riflessione.

Le corse dei cavalli in Inghilterra, l’embrione del moderno betting. (Photo by Edward G. Malindine/Topical Press Agency/Getty Images)

La capillare presenza di atleti, dirigenti od intere società, virtualmente corrotti da organizzazioni criminali, ha contribuito, indirettamente, a fomentare la percezione di eventi ‘imprevedibili’ o più propriamente di campionati i cui esiti parziali o finali siano del tutto ‘impronosticabili’, nel gergo dello scommettitore. Questo accadde soprattutto nei campionati e nelle serie minori, ove lo spread retributivo rispetto gli omologhi maggiori è spropositato a fronte di una prestazione che, strinctu sensu, è identica. Se vi è scarsità di risorse a disposizione degli atleti di queste realtà – l’esempio fatto è per il Calcio, ma il discorso in parola varrebbe per il basket, o per sport individuali come tennis o semi-individuali come il ciclismo – aumenta il moral hazard per un’equazione presto pronta: un atleta, od un dirigente, è incentivato per un proprio scopo egoistico, ad inquinare l’evento sportivo e questo comportamento rende lo stesso evento più accattivante agli occhi degli appassionati/scommettitori. Non è un caso che la lega di serie B abbia in passato avuto come naming sponsor una società di betting.

L’enorme volume di affari che ruota intorno a questo sistema ha negli anni contribuito a creare un paradosso in forma di corto circuito: appassionati che invece di rimanere delusi delle costanti infiltrazioni di disonestà e corruzione da parte degli atleti hanno inconsapevolmente sfruttato questo fenomeno per continuare a scommettere su eventi dall’esito incerto – e quindi più remunerativi nelle quote e nelle potenziali vincite – foraggiando così le società di betting e il loro pieno posizionamento nella filiera. Questo posizionamento ha assunto la forma del ricatto – il pericolo, nella parole di chi è contrario al decreto, è che questi investimenti siano diretti all’estero – contribuendo a tenere in piedi un sistema economicamente insostenibile e perciò più incentivante per gli atleti che intendano lucrarvi su. Quindi, in altre parole, come si può non comprendere che, al netto del costo sociale della ludopatia, il problema su cui ragionare è il modello economico-finanziario su cui lo sport poggia le basi?

Una delle scene finali del mitico “Febbre da cavallo”, capolavoro della commedia italiana sul mondo delle scommesse. 

La Premier League, e più in generale il calcio professionistico britannico, è dai più ritenuto il vero parametro di riferimento in tema di finanza sportiva e i suoi business model sono i più emulati nel mondo del calcio. Ad un primo impatto non ci si può non accorgere che 9 club su 20 nella passata stagione erano sponsorizzati sulle maglie da gioco da società di betting (il 45% delle iscritte al massimo campionato). La maggior parte di queste società hanno in realtà un esiguo giro d’affari nel Regno Unito maturando la maggior parte dei propri ricavi nei mercati extra europei. La somma totale delle sponsorizzazioni ai club è stata nel 2017-8 di 47,3 milioni di sterline (50 milioni di euro approssimativamente) a fronte dei 2,4 miliardi di sterline elargite dalla Premier ai propri club a ripartizione degli introiti dai diritti TV.

Finché i nostri campionati non approderanno a cifre di questo genere la presenza delle società di betting sarà sempre più ingombrante, e la loro fuoriuscita dalla filiera la causa di un possibile dissesto sistemico del calcio. Il Decreto non appare cogliere nel segno: contrastare la ludopatia senza far menzione delle slot machine, o lasciando intatte le lotterie nazionali, potrebbe avere un impatto più che negativo sul breve periodo. Damiano Tommasi, presidente dell’Assocalciatori, pur lodando le intenzioni dell’intervento, ha rammentato che nel vecchio monopolio sulle scommesse del Totocalcio, una parte del gettito era immediatamente veicolata verso il sistema Calcio. Una ipotesi interessante, quella di imporre una fee alle società di betting, che finanzi in via diretta campionati più poveri. Il betting, il cui volume d’affari nel 2016 ha superato i 90 miliardi di euro in Europa, di cui quasi 20 nella capolista Italia, rimane tutt’oggi fortemente deregolamentato, con numerosi attori che risiedono in paradisi fiscali o in paesi del Sudest asiatico per eludere la vigilanza sul settore, ed è in questa direzione che i prossimi interventi legislativi dovranno incidere, attesa la grande propensione delle organizzazioni criminali a sfruttare questo settore per riciclare i proventi delle loro attività.

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