Calcio
16 Maggio 2025

Quando l’Inter divenne Zapatista

Una storia assurda, ma vera.

15 Giugno 2004, Comunità di Oventic, Stato del Chiapas, Messico. Nel quartier generale del movimento zapatista, una foto ritrae alcuni rappresentanti del Buen Gobierno ribelle mostrare con fierezza la maglia numero 4 dell’Inter di Javier Zanetti. Come in una conferenza stampa, ma con il volto coperto da un passamontagna.

Lo scatto, destinato a diventare storico, non è affatto casuale, ma è il suggello di un’amicizia anomala, avulsa dalla logica canonica che regola – e appiattisce – i grandi club, poco propensi a compromettersi in cause politiche. Un rapporto, quello tra l’FC Internazionale e l’EZLN (l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), figlio illegittimo di un contesto irripetibile e sui generis. Un rapporto che è il manifesto di quell’Inter morattiana pre-calciopoli: una compagine scapestrata ma combattiva, l’eterna seconda, perdente ma degna. Con una foto unica a consacrarne il ruolo, idealizzato dalla cultura di massa, di squadra di sinistra, dentro e fuori dal campo. Ma al di là della facile retorica, come si è arrivati a quell’iconico scatto?

Per capirlo dobbiamo riavvolgere il nastro di vent’anni. È Il 1° gennaio 1994 quando entra in vigore il NAFTA, l’accordo commerciale tra Messico, USA e Canada. Lo stesso giorno, con quello che verrà nominato el levantamiento, sette municipi del Chiapas vengono occupati dal movimento di liberazione zapatista, di cui l’EZLN è il braccio armato. Agli albori della globalizzazione clintoniana, la notizia della rivolta zapatista fa il giro del mondo.

Organizzazione in comunità autonome, rivendicazione del diritto all’autodeterminazione, animo anticapitalista e altermondista: la rivoluzione del Chiapas sarà prodromica dei successivi movimenti no-global, anticipandoli temporalmente e ideologicamente, come convenuto dallo stesso leader dell’EZLN, il subcomandante Marcos, in un’intervista con Gianni Minà nel 2004. La forte reazione repressiva che soffoca il “popolo di Seattle”, sprofondata nell’abisso dei fatti di Genova, colpirà duramente anche il movimento zapatista. Nell’aprile del 2004, una carovana trasportante acqua viene attaccata dai paramilitari a Zinacantan, nel cuore del Chiapas. Ci sono numerosi feriti. La notizia, in un’era di Internet ancora libera da smartphone e social, giunge al computer di casa Zanetti. Insieme alla moglie Paula, il capitano dell’Inter decide di rispondere all’appello della giunta zapatista:

Dalla lontana Milano desidero farvi arrivare il mio pensiero e quello dei miei compagni di squadra. Convinti di condividere con voi gli stessi principi e ideali, nei quali si vede riflesso lo spirito zapatista. Crediamo in un mondo migliore, non globalizzato, ma arricchito dalle differenti culture e dai consumi di ogni popolo. È per questo che vogliamo appoggiarvi in questa lotta per difendere le vostre radici, e combattere per i vostri ideali (…). Noi siamo in questo cammino, e in questo stesso cammino, sebbene con differenti obiettivi, vi appoggiamo”.

Parole inequivocabili, dai termini oculati, che la lente della modernità rende ancora più eccezionali. Come scritto dal direttore della comunicazione nerazzurra dei tempi, Bruno Bartolozzi, in un libro sulla vicenda (La màs digna): “E così l’Inter divenne Zapatista.”

Nel 2004, l’Inter è nel pieno di una crisi esistenziale. Le cicatrici, le immagini del 5 maggio sono ancora vivide. La società – formalmente in mano a Facchetti, ma de facto ancora controllata da Moratti – ha faticato terribilmente a scrollarsi di dosso il fardello psicologico di quel ricordo. Come se da quel giorno l’Inter fosse diventata ontologicamente perdente, sfigata per antonomasia, simmetricamente opposta alla spietata – e quindi vincente – Juventus di Moggi. Un sistema con ruoli ben definiti, i cui ingranaggi verranno svelati solo qualche anno dopo.

L’impatto emotivo è talmente forte che traboccherà nel pop, trasformando le sfortune dell’Inter in un bersaglio facile. Forse è anche per questo che tifare per chi perde diventa naturale.  Così, lo stesso Zanetti decide di versare agli zapatisti i soldi delle multe di aprile e maggio, ed un mese dopo la lettera, una delegazione interista arriva in Chiapas per la prima volta, scattando la storica foto. Le relazioni s’infittiscono fino ad arrivare, nel 2005,  a un invito ufficiale da parte del subcomandante Marcos per giocare una partita tra Inter e Zapatisti in Chiapas, in una lettera esilarante in cui propone il coinvolgimento di mostri sacri come Maradona, Valdano e Socrates, oltre che quello delle rispettive squadre femminili. Moratti, affascinato dalle parole di Marcos, accetta.

“Se qualcuno nel mondo parla di esportare la democrazia, magari con le armi, noi pensiamo che la democrazia debba essere importata”, dirà in un comunicato ufficiale.

La partita però non si giocherà mai: complice l’antagonismo di Bancomer, la filiale messicana di BBVA, che ne bloccherà i conti correnti, poco dopo la risposta di Moratti l’EZLN dichiara allarme rosso, ed è costretta a congelare il tutto. La vicenda avvicina comunque l’Inter ai movimenti altermondisti latinoamericani, inclusa la rivoluzione bolivariana: il 16 ottobre 2005, su proposta e volontà di Hugo Chavez, si gioca a porte chiuse a San Siro una storica amichevole tra Inter e Venezuela, terminata 0-1. Per un periodo, il vessillo degli oppressi del mondo è sembrato davvero avere tinte neroazzurre.

Poi arriverà lo tsunami di Calciopoli, e complice il disinteresse di Mancini e il complicarsi della situazione in Chiapas, l’impegno interista per la questione scemerà gradualmente. Guarda caso, coinciderà con l’inizio del ciclo di vittorie, ed al progressivo sbiadimento dell’immaginario sull’Inter morattiana, redenta dai propri demoni e dalla giustizia sportiva. Di quel connubio alieno, effigie di un certo modo di intendere il calcio e la vita, rimane solo un ricordo demodé per il mondo di oggi, lontano anni luce dal globalismo asettico delle squadre moderne, ben attente a rimanere sempre in linea con la narrazione di sistema. Forse proprio perché vittima del sistema stesso, quell’Inter seppe spezzare questa logica, anche se per poco tempo. Come scritto dallo stesso subcomandante Marcos:

L’Inter è la più grande, la più adorata, la meno vincente delle squadre che hanno contribuito a scrivere la storia del calcio del pianeta. La più degna”.

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