Italia 90: un mondiale che dovremmo rimpiangere ancora oggi fatto di sprechi, speculazioni e morti sul lavoro.
Nel 1973 il regista Marco Ferreri ebbe più di qualche critica durante la presentazione al Festival di Cannes della sua irriverente opera cinematografica La grande abbuffata. La trama di questa pellicola ha come protagonisti quattro individui che – oppressi e delusi da una società borghese e superficiale – decidono di rinchiudersi in un villino alle porte di Parigi, dedicandosi ai piaceri sessuali ed al cibo fino (letteralmente) alla morte. Oltre alla sua rilevante critica al conformismo, il film presenta un’odissea gastronomica su enormi tavole imbandite di gustosissimi piatti, un paradiso di sapori insomma; una tavola ricca di ottimi piatti tutti a portata di mano, pronti a deliziare il palato degli innumerevoli invitati, già con l’acquolina in bocca al solo pensiero di appagare il proprio infinito appetito.
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Su per giù questa è la fotografia dell’Italia che si appresta ad ospitare i mondiali del 1990, notti magiche, anni di grandi abbuffate ma soprattutto di grande pressappochismo sul piano dell’organizzazione. L’aspetto prettamente calcistico fu ampiamente trattato. Ricordiamo certamente lo splendido cammino che portò la nazionale alle semifinali, l’esultanza di Schillaci, la danza improvvisata del Camerunense Roger Milla, la delusione olandese, gli Hooligans, l’ultima apparizione della nazionale Jugoslava.
Quella di Italia 90, però, non rappresentò esclusivamente un’estate magica e ricca di aspettative, vissuta da predestinati – iniziata con gli strascichi di una Coppa Campioni vinta dal Milan, una Coppa Uefa vinta dalla Juventus contro la Fiorentina, una Coppa delle Coppe vinta dalla Sampdoria – ma fu anche una delle ultime grandi speculazioni economiche prima dello scandalo Tangentopoli.
Ma andiamo con ordine. Nel 1984 la Fifa assegnò l’organizzazione dei Mondiali all’Italia: il presidente del Comitato Organizzatore di Italia 90 era Luca Cordero di Montezemolo e il presidente del CONI Franco Carraro. Ai due spettava un compito arduo, quello di rinnovare e di realizzare le strutture ospitanti le 52 partite da giocare in un mese in dodici diverse città. Certo non mancava l’entusiasmo degli sportivi, che in quegli anni ammiravano le gesta atletiche dei numerosissimi calciatori che si distinguevano nel campionato più bello al mondo, ma sicuramente non mancava nemmeno l’entusiasmo di chi, con attenzione, intravedeva l’affare del secolo.
Qualcuno pensa che proprio a partire da Italia 90 molti, addetti e non ai lavori, iniziarono a sperimentare quel modo di “presentare” il calcio che in futuro farà le fortune di tanti: diritti tv, le prime immagini con nuovi sistemi ad alta definizione, vaste programmazioni, infinite campagne pubblicitarie, merchandising. Alla vigilia l’occasione sembrava – come sarebbe accaduto in futuro con i mondiali di nuoto a Roma o l’Expo di Milano – un’importante vetrina nella quale esporre i progressi in campo organizzativo, tecnologico, turistico e manageriale, tratto tipico della rampante stagione socialista; a posteriori si rivelerà un disastro sul piano economico ed un vero e proprio spreco sul piano strutturale: una voragine tutta made in Italy.
Per portare a termine questo progetto, un totale di circa 48 miliardi di lire vennero stanziati con la legge n°65 del 1987 per le strutture di Bari, Torino, Bologna, Cagliari, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Roma, Udine e Roma. Impressionante fu la lievitazione dei costi, cresciuti vertiginosamente e dovuti a trattative ed appalti ancora oggi avvolti nel mistero; nonostante vi fossero le tempistiche per organizzare in maniera cristallina tutte le gare, l’86% dei lavori fu affidato grazie a trattative private. Le spese crebbero del 90% per quasi tutte le strutture tranne per l’Olimpico di Roma, dove vi fu una crescita esponenziale di circa il 180% (un dato che la dice lunga su come vennero gestiti realmente gli affari gravitanti attorno l’orbita del Mondiale).
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Negli anni successivi i risultati di questo “furor imprenditoriale” si palesarono in tutto il loro spreco ed inefficienza. Alcune strutture divennero delle vere e proprie cattedrali nel deserto, altre furono degli esperimenti estetici che non risposero ad alcuna reale esigenza, altre ancora vennero semplicemente abbandonate a sé stesse nella più completa incuria.
Lo stadioDelle Alpi di Torino, ad esempio, ospitò cinque partite in quel mondiale. La sua breve storia iniziò negli anni 90’ – quando venne definito l’avanguardia degli stadi Italiani – eterminò con la chiusura del 2006 e la demolizione tre anni dopo. Principale problema di quest’impianto fu la scarsa visibilità, dovuta ad un’eccessiva distanza tra gli spalti ed il terreno di gioco, oltre all’impianto d’irrigazione che causò diversi problemi al manto erboso, danneggiandolo in diverse occasioni.Il San Nicola di Bari venne invece realizzato dal famosissimo Renzo Piano, che elevò nell’Italia sportiva l’estetica futurista ed innovativa, battezzando il suo gioiello l’astronave per via della caratteristica forma. Tuttavia già nei primi anni i costi di manutenzione furono elevatissimi, a causa della copertura in teflon cadente letteralmente a pezzi.
La visibilità, oltretutto, è uno dei problemi ricorrenti quando si tratta di massicci impianti dotati di pista d’atletica, caratteristica nella quale i nostri stadi primeggiano in Europa. Lo stesso San Paolo di Napoli accusa un problema strutturale riguardante il terzo anello, realizzato proprio in occasione dei mondiali, e ad oggi chiuso. Il motivo è senz’altro unico nel suo genere: sembrerebbe infatti dovuto alla propagazione delle onde sismiche causata dalla fatiscente struttura in ferro.
L’odierna inadeguatezza di molti impianti sportivi nostrani riflette ancora oggi il pressappochismo con cui vennero affrontate le varie fasi organizzative e della progettazione che, senza dubbio, getta un’ombra molto buia non solo sugli eventi trascorsi ma, in maniera particolare, su quelli attuali. Consultando il bilancio di previsione di Palazzo Chigi degli ultimi anni vi è una voce che fa riferimento ai mutui accesi con la legge del 1987 sulla costruzione degli stadi ospitanti le gare del Mondiale. Nel 2011 si parlava di 55 milioni, che diventano 61 nel 2014.
A confermare il trend negativo degli stadi vi erano, ovviamente, le altre opere pubbliche. Esempi di improduttività destinati ad essere incompiuti o addirittura pericolanti. A Roma troviamo la stazione Farneto (meglio nota come Olimpico-Farnesina), in funzione per sole tre settimane, chiusa ufficialmente ad ottobre 1990 e occupata negli ultimi anni da Casapound. Il Terminal Ostiense, invece, aveva l’obiettivo di collegare la città all’aeroporto di Fiumicino; anch’esso rimasto in funzione poche settimane, venne definitivamente chiuso tre anni dopo e ad oggi non è ben chiaro cosa rappresenti, se non un bivacco per disperati. Così a Milano l’Albergo Italia 90 a Ponte Lambro, i tre ponti di Fuorigrotta a Napoli o i maxi-parcheggi auto a Palermo, che vennero inaugurati un anno dopo la fine del mondiale.
In quanto a sicurezza, le dodici vittime nei cantieri degli stadi e le altre dodici nelle opere esterne, oltre ai 678 feriti, non migliorarono di certo un quadro già macabro. Le morti bianche nei cantieri passarono spesso in secondo piano, in un paese esaltato per un mondiale che vedeva la nazionale di casa favorita. I giornali e le televisioni non si soffermarono affatto su questo dramma, a differenza di alcuni gruppi politici extraparlamentari che denunciarono gli sprechi e i numerosi incidenti sul lavoro. L’episodio più cruento si verificò a Palermo, nell’attuale Renzo Barbera (all’epoca La Favorita) dove la caduta di una tettoia causò la morte di ben cinque operai.
Diverse furono le indagini aperte dopo il mondiale, ma quasi tutte inconcludenti. Vennero avviate due inchieste parlamentari: la prima nel maggio 1992 e la seconda nel maggio 1999, entrambe conclusesi con le rispettive archiviazioni dalle accuse di corruzione e di abuso d’ufficio, che raggomitolano una matassa di responsabilità politiche ed amministrative destinata a non sciogliersi mai più. In campo con la sconfitta ai calci di rigore a Napoli contro l’Argentina, il sogno calcistico azzurro è destinato a tramontare; fuori, invece, viene meno la speranza nella trasparenza sulla gestione dei grandi eventi pubblici.
Come ne La grande abbuffata, dove i protagonisti perdono la vita, la conclusione del mondiale decretò la fine di quel calcio anni ottanta che fece innamorare una generazione intera di appassionati. Dell’enorme tavola, imbandita con le più gustose pietanze, non rimane altro che un’accozzaglia di piatti e bicchieri vuoti, su una tovaglia macchiata di vino e d’olio; le sedie sono vacanti, e la stanza è oramai vuota.
Si concluse l’abbuffata, ma forse non si concluderà mai la fame.