Un viaggio alla scoperta della grande boxe d'oltreoceano nel primo Novecento e delle tensioni razziali che imperversavano in quegli anni.
Il 26 dicembre 1908, a Sidney, sconfiggendo in quattordici round il bianco Tommy Burns, il peso massimo americano Jack Johnson diviene il primo pugile di colore ad aggiudicarsi un titolo mondiale nel pugilato. Negli Stati Uniti, paese in cui vige una rigida discriminazione razziale, la vittoria di Johnson viene considerata un affronto e la ricerca della White Hope, la “Grande Speranza Bianca” che doveva venire a riprendersi l’onore perduto, diviene un’ossessione per il gruppo etnico dominante, i “White Americans”.
Nei primi anni del Novecento gli Stati Uniti hanno iniziato il percorso che li porterà ad affermarsi come potenza egemone a livello mondiale. Il paesaggio urbano subisce notevoli cambiamenti, e l’incremento demografico conseguente ai flussi migratori provenienti dall’Europa porta manodopera utile allo sviluppo industriale in atto già da alcuni decenni. Dopo le presidenze repubblicane di Theodore Roosvelt e William Howard Taft, nel 1913, il democratico Woodrow Wilson si aggiudica le elezioni; il suo mandato, imperneato su una forte politica anti trust, sarà caratterizzato dall’intervento nel conflitto mondiale, conseguente al voto del Congresso del 6 aprile 1917.
La maggioranza della popolazione di colore vive negli stati del sud, soggetta a una rigida discriminazione razziale codificata da numerose leggi promulgate alla fine dell’Ottocento. I neri non possono esercitare il diritto di voto, sono esclusi da cariche pubbliche, non possono iscriversi nelle scuole frequentate da bianchi, e viaggiano in carrozze ferroviarie separate. Non si contano gli episodi di violenza ai loro danni, e la confraternita del Ku Klux Klan ben rappresenta l’emblema oltranzista della maggioranza bianca. In quella società rigidamente suddivisa per classi sociali, la boxe, importata dalla Gran Bretagna, è l’unico sport che può essere praticato anche da ceti non abbienti al di fuori dai circuiti elitari rappresentati da college ed università. Nell’America che inizia a declinare il suo “sogno”, dove ai poveri e agli emarginati non è precluso il successo, la noble art diviene allora una metafora della vita, determinata da vittorie, sconfitte e rivincite, e, in questo ring ideale, a chiunque può essere concessa una chance: persino a un nigger.
“Papa Jack”, conosciuto come “il gigante di Galveston”, cittadina del Texas, quel giorno di Santo Stefano del 1908, alla Rushcutter-bay Arena di Sidney, in Australia, aveva esagerato. Per quattordici interminabili riprese, aveva deriso e sbeffeggiato il campione dei pesi massimi in carica, il bianco canadese Tommy Burns, conquistando il titolo dei pesi massimi con irrisoria facilità, primo uomo di colore a riuscire nell’impresa.
Fino a quella data le “Queensberry’s Rules” permettevano solo a pugili di razza bianca di competere per il titolo dei pesi massimi, mentre i nigger, seppur affrancati dalla schiavitù in virtù del XIII emendamento emanato il 18 dicembre 1865, potevano aspirare solo al titolo di “Campione della razza nera”. La cosi detta “linea del colore”, auspicata anche dal celebre scrittore Jack London, corrispondente del “The New York Herald” per gli incontri di boxe, venne infranta per la prima volta il 26 di dicembre del 1908. İn quegli anni il pugilato era considerato dagli americani lo sport per eccellenza e, a partire dalla fine Ottocento, gli Stati Uniti avevano strappato all’Inghilterra il primato di centro nevralgico della noble art. Le nuove regole del Marchese di Queensberry che prevedevano, fra l’altro, l’uso dei guantoni e la divisione dei pugili in categorie di peso, portarono una certa regolamentazione in un’attività sportiva che, fino a quel momento, era stata per lo più amatoriale e clandestina, dando un nuovo impulso allo sport che, più di ogni altro, simboleggiava lo spirito deciso e ardimentoso del popolo americano.
.
Il campione con i guantoni, specie se peso massimo, era un perfetto esempio vivente di coraggio e intraprendenza e, nel tessuto sociale dell’epoca, la sua figura assumeva notevoli significati simbolici. Sempre più giovani uomini provenienti da ambienti poveri e da gruppi etnici stigmatizzati consideravano la boxe come un mezzo per riappropriarsi del proprio destino, riscattandolo ed elevandolo al di sopra dello squallido vissuto quotidiano. Neri, ebrei , irlandesi e, in seguito, italiani e latini, trovarono l’opportunità di stringere forti relazioni di cameratismo frequentando la palestra di quartiere, e condividendo il sogno di diventare professionisti e, perché no, campioni affermati. In questo contesto nacque il mito di Jack Johnson, fortissimo boxeur di colore che sarà considerato da molti il più grande peso massimo della storia del pugilato, mito che nacque nel “boxing day” di quel 1908, e che fu per sempre intrecciato con un altro fenomeno di mitopoiesi: la ricerca della “Grande Speranza Bianca” che un giorno sarebbe venuta a riprendersi l’onore perduto, placando l’indignaziane del gruppo etnico dominante, bianco, protestante ed anglo-sassone, anni dopo riassunto nell’acronimo wasp: White Anglo-Saxon Protestant. L’immagine che racchiude plasticamente questo concetto è la celebre litografia del pittore newyorkese George Bellows intitolata The White Hope, del 1921.
“Papa Jack”, dal canto suo, non perdeva occasione per sconvolgere gli stilemi sociali dell’America puritana e bigotta del tempo. Il suo “sorriso dorato”, dovuto all’innesto di diversi denti d’oro, ossessionava gli americani di razza bianca, al pari delle macchine sportive con autista bianco, e alle tre mogli, anche loro bianche. Con il ricavato delle vittorie aprì un night club ad Harlem, il “Club Deluxe”, che vendette anni dopo al gangster Owney Madden, che lo trasformò nel celeberrimo “Cotton Club”. La ricerca di uno sfidante anglosassone che potesse “spegnere quel sorriso oltraggioso” assunse i toni del melodramma e, non trovando di meglio, i promoter di boxe ricorsero a un vecchio pugile ritiratosi da tempo, Jim Jeffries, soprannominato “The Grizzly Bear” per la sua passione per la caccia all’orso, convincendolo, a suon di dollari, a riprendere i guantoni.
.
I quotidiani dell’epoca presentarono l’incontro come la sfida del secolo e, soprattutto, come la prova definitiva della superiorità della razza bianca. La località prescelta per il match fu Reno, in Nevada, dopo che San Francisco dovette rinunciare per le violente opposizioni dei gruppi religiosi, che convinsero il governatore James Gillett a declinare l’offerta. Il Nevada, invece, era uno di quegli Stati in cui la boxe era considerata legale, a differenza di molti altri in cui era vietata in quanto considerata pratica immorale. Ma, il 4 luglio del 1910, davanti a più di ventimila spettatori, Jack Johnson spense il sogno di tanti americani sconfiggendo Jeffries per abbandono, dopo quattordici riprese di schiacciante superiorità.
Quando il telegrafo diffuse la notizia del risultato in molte città ci furono agitazioni, tumulti e linciaggi di neri. Gli Stati dell’Unione, per paura di ulteriori disordini, vietarono la proiezione dell’incontro di Reno e, nel 1912, il “Sims Act” sancì il divieto assoluto delle proiezioni pubbliche di incontri di pugilato. Negli anni successivi Jack Johnson fu oggetto di persecuzioni di ogni tipo, che lo portarono a una controversa condanna per sfruttamento della prostituzione inflittagli da una giuria di soli bianchi. Costretto a espatriare in Messico, il pugile firmò un accordo con l’FBI per rientrare in patria in cambio dello scettro dei pesi massimi che, infatti, gli venne sottratto dal modesto Jess Wilard, alla ventiquattresima ripresa di un match burla svoltosi all’Avana nel 1915. La “linea di colore” era in questo modo riaffermata, e la speranza bianca tanto agognata aveva finalmente compiuto la sua missione recuperando l’onore perduto. All’incontro disputato all’Avana si ispirò un giovane appassionato di boxe, Ernest Hemingway, che, l’anno dopo, scrisse il suo primo racconto di boxe “A matter of color”.
.
In quello stesso 1915, nelle sale cinematografiche americane una pellicola stava riscuotendo un grande successo. Si trattava del film “Nascita di una Nazione”. Da poco, una sentenza antitrust della Corte Suprema aveva posto fine al monopolio cinematografico dell’impero di Thomas Edison, ponendo fine alla così detta “guerra dei brevetti”, e il grande cineasta David Wark Griffith, approfittando dlla situazione, con una piccola casa di produzione, l’American Mutoscope Company, realizzò quello che venne da molti critici considerato il più grande film del cinema muto. “Nascita di una Nazione” rendendo omaggio al primo Ku Klux Klan, creato nel Tennessee nel 1865 da reduci dell’esercito della Confederazione usciti sconfitti dalla Guerra di Secessione, riscosse enorme successo nell’opinione pubblica. Sull’onda dell’emozione suscitata dal film di Griffith, e, grazie agli sforzi di William Joseph “Doc” Simmons, un insegnante della Emory University di Atlanta, uno dei tanti college affiliato alla Chiesa Episcopale Metodista del Sud, il Klan si riorganizzò e“Doc” Simmons, insieme ad altri quindici componenti, bruciò simbolicamente una croce nei pressi di un picco delle Stone Mountain, in Georgia. Da lì a poco, il Klan raggiunse più di quattro milioni di iscritti, l’equivalente del 15% della popolazione avente diritto al voto.
Con la rinascita del Klan, e con l’epopea del proibizionismo – con il VXVIII emendamento ed il Volstead Act, a partire dal gennaio del 1920, veniva vietata l’importazione la vendita e il trasporto di alcool negli Stati Uniti – la ventata di puritanesimo e moralismo che attraversava da costa a costa la società americana raggiunse il suo culmine. Questa seconda fase del Ku Klux Klan si differenziò dalla prima per la portata del fenomeno, non più relegato ai soli stati del sud ma esteso a tutta la nazione, fenomeno che ebbe notevole ascendenza su molti politici perché, di fatto, in quegli anni il Klan controllava i governi dell’Oklahoma, dell’Indiana e dell’Oregon, oltre a molti parlamentari democratici del sud, e anche alcuni presidenti degli Stati Uniti, sicuramente Warren Harding e Harry Truman, ebbero stretti rapporti con la confraternita. Non mancarono episodi di violenza gratuita, specie da parte di una fazione del Klan, la famigerata “Black Legion”, attiva nel Midwest che, al posto delle classiche tuniche bianche, indossava uniformi nere. Non si raggiunsero però gli orrori della prima fase quando, solo nella Carolina del Sud, si registrarono quasi duecento delitti, al punto da costringere la Giuria federale a dichiarare il Klan organizzazione terroristica, causa del successivo scioglimento datato 1872.
.
Nonostante la sconfitta patita da Wilard, per tutte le comunità di colore il mito di Jack Johnson non accennò ad affievolirsi. Rimase celebre una sua apparizione in uno “Speakeasies” di Harlem, i famosi locali notturni del quartiere nero di New York, che mandò letteralmente in visibilio migliaia di persone che si riversarono nelle strade per osannarre il loro idolo. Era quello il periodo conosciuto come il “Rinascimento di Harlem”, nel quale la cultura afroamericana visse un periodo di fermento culturale grazie all’apporto di personaggi come Charles W. Chesnutt, James Weldom Johnson e Claude McKay, il tutto con in sottofondo le note della “scandalosa” musica jazz di Clyde Livingston, troppo sensuale per la bigotta morale bianca.
Anche l’interesse viscerale con il quale la carta stampata dell’epoca seguiva le vicende legate al pugilato rappresentò un fenomeno nel fenomeno. Non solo John Griffith London, alias Jack London, ma tutte le migliori firme del giornalismo contribuirono a determinare le fortune della noble art. A partire dal 1921, poi, con la diretta radiofonica dell’incontro Dempsey-Carpentier, anche la radio si unì alla carta stampata per diffondere le gesta degli eroi del pugilato, sport che veniva considerato da molti scrittori, da Conan Doyle a George Bellows fino a Ernest Hemingway, la metafora ideale per descrivere con efficacia la società americana dell’epoca.
.
Jack Johnson continuerà la carriera combattendo fino a sessanta anni. Si ritirerà nel 1938. Il 10 giugno del 1946, in un ristorante di Franklinton, cittadina della Carolina del Nord, si rifiutano di servirlo. Infuriato, Papa Jack salirà in macchina e, percorsi pochi chilometri, sarà coinvolto in un pauroso incidente automobilistico. Morirà poche ore dopo all’ospedale di Releigh. Negli anni Sessanta del Novecento la sua figura rappresenterà un simbolo per il Black Power, e la Boxing Hall of Fame lo riconoscerà come uno dei più grandi pugili di ogni tempo.