Il 23 settembre scorso, dopo ben 18 anni, Enrico Preziosi ha lasciato la presidenza del Genoa. Il club è stato venduto a 777Partners, una società americana con sede a Miami. Fino a qui nulla di strano, si direbbe una normale operazione di mercato. Ma a ben vedere non è un fatto isolato. La compagine ligure infatti è l’ennesima squadra italiana ad essere stata rilevata da una società statunitense. Come mai? Che gli americani abbiano un fiuto atavico per gli affari è cosa nota, ma cosa li spinge ad investire proprio nel nostro calcio?
Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito ad una vera e propria colonizzazione a stelle e strisce dei nostri campionati. Sono infatti ben 9 i club tra Serie A e Serie B (Roma, Bologna, Fiorentina, Milan, Spal, Parma, Venezia, Pisa e Genoa) ad essere passati nelle mani di imprenditori o cordate made in USA. Dapprincipio fu Thomas Di Benedetto, con l’acquisizione della AS Roma tra l’aprile e l’agosto 2011 dopo una lunga trattativa con Unicredit; a seguire tutti gli altri. E se almeno inizialmente queste operazioni di mercato – accolte tra entusiasmo e scetticismo – facevano rumore, oggi sembrano passare quasi in sordina vista la loro ripetitività.
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La domanda fondamentale che ci poniamo è quindi la seguente: perché gli imprenditori d’oltreoceano investono nel calcio italiano? La risposta è semplice: per convenienza, perché ci vedono una potenziale opportunità. Tuttavia, è di grande utilità guardare prima al campionato inglese, toccato in anticipo da questo processo di americanizzazione. La Premier League, nata nel 1992, è sorta principalmente per questioni legate ai diritti tv, e ha portato nel tempo introiti mai visti prima. Quando all’emittente televisiva BSkyB fu concesso di trasmettere in esclusiva 60 partite in diretta all’anno per 5 anni, entrarono nelle casse del movimento ben 304 milioni di sterline. Una cifra monstre per l’epoca.
Nel giro di una decina d’anni, quando i tempi furono finalmente maturi e il binomio narrazione sportiva-intrattenimento iniziò a funzionare, chi, se non gli americani – businessmen per antonomasia – colsero la palla al balzo? A partire dal 2007 infatti, quando Malcolm Glazer acquistò il Manchester United, diversi imprenditori made in USA hanno iniziato ad investire sulla Premier League. E oggi, a distanza di 14 anni, sono addirittura 7 le squadre (Manchester United, Arsenal, Liverpool, Fulham, Aston Villa, Christal Palace e Burnley) controllate in toto o in parte da americani.
Ci hanno visto lungo: attualmente la prima divisione inglese è il campionato più ricco al mondo, oltre che il più seguito. Pensate che soltanto con i diritti televisivi, Red Devils e Liverpool nella scorsa stagione hanno incassato rispettivamente 178.2 e 172.1 milioni di euro. Cifre che fanno impallidire. Nulla a che vedere con il calcio italiano, distante anni luce. Le condizioni in cui riversano oggi i club nostrani non sono certamente delle migliori: conti che non tornano, perdite costanti e bilanci in affanno esacerbati dalla pandemia. E lontani sono i tempi del Napoli di Maradona o del Milan degli immortali (sic!) tanto che la Serie A, ormai, non è che un mero campionato di transizione.
Questo però non ha scoraggiato, anzi, gli imprenditori statunitensi ad investire nei club del Belpaese. Al contrario, come detto in apertura, vi vedono una potenziale opportunità e le ragione principale è economica (come al solito). Mentre i club perdono progressivamente valore, dato il momento di crisi, l’investitore americano compra al ribasso e opera investimenti oculati ma che hanno un ampio margine di crescita una volta superate le turbolenze economiche. E infatti i lati positivi, per i loro portafogli, sono evidenti. Il calcio è sempre più seguito a livello globale, di conseguenza – all’estero come in Italia – le aziende si accapigliano per ottenerne i diritti televisivi, le tariffe aumentano e i club non possono che giovarne.
Inoltre, nuove opportunità di business – vedi token non fungibili e criptovalute – portano nuovi flussi di denaro. Non va poi dimenticato che la Serie A garantisce ben 7 posti nelle competizioni europee e che da solo, il movimento calcistico italiano, genera ingenti ricavi. «Calcoliamo 18 miliardi fra diretti e indiretti. Il calcio vale l’1% del Pil», ha detto al Corriere della Sera Luigi Capitanio, partner di Monitor Deloitte. Numeri, questi, che non hanno quindi lasciato indifferenti gli investitori d’oltreoceano per cui si sa, business is business. Ma ci sono altre, e più imponenti, ragioni ad attrarre i nostri cugini americani.
Un’altra opportunità di crescita è infatti legata alla costruzione di nuovi impianti da gioco, centri sportivi all’avanguardia e strutture commerciali adiacenti allo stadio (come accade in Europa già da un po’). L’Italia da questo punto di vista è anni luce indietro, ma è proprio l’arretratezza del nostro paese ad attrarre l’occhio americano, sveglio e sempre vigile rispetto a certe dinamiche. Stando a quanto riportato da una recente indagine della FIGC, negli ultimi dieci anni in Italia sono stati costruiti solo tre nuovi stadi (Allianz Stadium, Gewiss Stadium e Dacia Arena), rispetto ai 153 in tutta Europa.
«Il calcio da noi è già un’industria», sostiene sempre Luigi Capitanio, «ma in ottica prospettica ha un potenziale ancora superiore. Stimiamo infatti che nei prossimi 10 anni gli interventi di rinnovamento delle infrastrutture genereranno fonti di ricavo per l’industria del calcio e per i settori collegati pari a circa 25 miliardi». Non è quindi casuale che da Milano a Roma passando per Parma, Bologna e Firenze le proprietà d’oltreoceano si stiano mobilitando per rinnovare impianti e aree limitrofe, nonostante un iter burocratico lungo e contenziosi con le istituzioni, Pallotta e Commisso ne sanno qualcosa. Gli americani padroni del nostro calcio. Niente romanticismo, chiaramente, nessuna poesia. Solo profitto. Scordiamoci i presidentissimi, il futuro è a stelle e strisce.
Come si diventa il Re del volley? Il talento da solo non basta. Servono allenamento mentale e olio di gomito. Dopo essere diventato una leggenda della pallavolo sulla sabbia e sul mondoflex, ora si appresta a diventarlo anche in panchina.