Infrangere le regole del calcio e diventare un'icona mondiale.
Il Tango di gomma bianco, annerito dall’usura di mille e una partita, i cumuli di felpe come pali, le scivolate folli che finivano per far sanguinare copiosamente ginocchia e gomiti, i gol imprevedibili, le esultanze esasperate. Una regola aurea prima di ogni scontro: portiere fisso o volante? Il portiere volante tesseva il gioco dalle retrovie, un ragazzino con piedi educati solitamente, pronto a scagliare temibili bolidi in grado di coprire quella decina di metri che separavano le due porte nelle partite al parco tra bambini.
Quel sogno puerile, quell’arma letale negli schemi della nostra infanzia è stata resa pratica da un portierone grande e grosso, che di mestiere difendeva la rete ma di specialità calciava divinamente: José Luís Felix Chilavert Gonzalez, più semplicemente El Chila. La sua carriera inizia come quella di molti altri ragazzi, dotato di un talento sopraffino per tutto ciò che riguarda un pallone; al piccolo José viene consentito di giocare con il fratello maggiore insieme a ragazzi più grandi di lui, ma a una sola condizione: la porta come gavetta.
Il ragazzino accetta e si impegna, diventa forte e impara a farsi rispettare dagli altri, forma un carattere fiero e autoritario pronto ad imporsi per non essere sottomesso. D’altronde nascere e crescere a Luque, sobborgo di Asunción noto solo per la presenza dell’aeroporto internazionale che serve la capitale e la sede della CONMEBOL, è complicato (come peraltro in qualsiasi altra zona del Paraguay, allora come ora). Scappare dalla fame, dalla povertà, sognare una vita diversa sono i fattori che plasmano in Chilavert una personalità straripante che non si piegherà mai, che vuole avere la forza di imporsi sul destino.
Per farlo José sceglie il campo da calcio dello Sportivo Luqueño, dove si afferma nelle giovanili come portiere di grande stoffa; ad Asunción è il Guaraní ad accorgersi delle doti di questo ragazzo, che fisicamente promette molto bene. 190 centimetri e 90 chili di pura potenza e reattività, che El Aborigen non si lascia sfuggire. A 17 anni difende già la porta dei gialloneri, conquistando il titolo che al Guaraní mancava da 15 anni: la sensazione che si tratti di un predestinato inizia a diffondersi, prepotentemente, anche in Argentina.
Nemmeno ventenne, il San Lorenzo de Almagro gli offre la porta che Chilavert proteggerà per 122 volte e 4 stagioni. Nel frattempo il 1989 è anche l’anno della prima convocazione in nazionale maggiore paraguaiana. L’esordio, per nulla semplice, è in una partita fondamentale per le qualificazioni mondiali ad Italia ’90: al Defensores del Chaco, la Albirroja ospita la fortissimaColombia di Valderrama. Al 90° il risultato pare avviato verso l’uno a uno finale ma, in una convulsa azione di gioco, l’estroso portiere dei Cafeteros, il leggendario René Higuita, esce scomposto travolgendo il giocatore paraguayo accorrente e provocando un inevitabile calcio di rigore.
Nei concitati momenti successivi, in cui una rissa domina la scena, José Luis Chilavert deve avere sentito il vento del destino sfiorargli la guancia e chiamarlo all’impresa; dal nulla si presenta sul dischetto il portierone del Ciclón, tra lo stupore dei compagni più alti in grado, che sbigottiti guardano il numero 1 posizionare il pallone e prendere la rincorsa. Gloria o dannazione, questo deve aver pensato El Chila in quei cinque passi dopo il fischio dell’arbitro. Anzi, probabilmente il fallimento non era compreso tra le eventualità del portierone di Luque, vista la sicurezza e la freddezza con cui il suo sinistro spiazza Higuita e assicura la vittoria alla sua nazionale.
Questa non servirà infine al Paraguay per aggiudicarsi il volo per l’Italia (dove invece andrà la Cafetera di Valderrama), ma conferisce a Chilavert quella sicurezza che lo renderà un’icona degli anni ’90. Il portiere dai piedi buoni inizia a calciare – con disinvoltura – rigori e punizioni in qualsiasi squadra militi: la sua corsa ritmata per coprire la settantina di metri che sovente lo separa dal pallone squarcia il vivere borghese nel pallone; genera emozione e gioia negli stadi di tutto il mondo, nella speranza di assistere all’ennesimo prodigio. L’Europa lo aspetta, il Real Zaragoza lo acquista, ma in Spagna non sfonda. Non sempre titolare, Chila è in realtà ingabbiato nel calcio europeo che ne limita il carattere estroso e i desideri di gloria, ancorandolo alla porta e facendolo sentire un leone in gabbia.
Dopo tre anni di purgatorio torna in Argentina, sposando il progetto ambizioso del Velez Sarsfield, che punta a replicare i fasti degli anni ’80. Nel 1993 arriva la svolta e si decide di riportare a casa proprio il trascinatore di quel magico Fortín, il grande bomber Carlos Bianchi, intanto divenuto allenatore di caratura internazionale. Con Chilavert in porta e il Virrey in panchina, dal ’93 al ’96, a Liniers si festeggiano tre campionati nazionali, una Copa Libertadores, una Coppa Intercontinentale e una Coppa Interamericana nel 1994; infine una Supercoppa Sudamericana nel 1996. Un dominio totale di quel magnifico Velez, di cui Chilavert fu trascinatore e capitano contribuendo anche in fase realizzativa con un bottino di 11 gol.
Il 1996, anno di chiusura dello splendido ciclo vincente, El Chila viene insignito del massimo riconoscimento possibile: si aggiudica il premio di migliore giocatore sudamericano dell’anno, privilegio raro, specie per un portiere. Le aspirazioni di affermazione europea spingono Bianchi a lasciare il Velez, ma il Chila guiderà la “V” azulada ancora alla vittoria di un campionato e di una Recopa Sudamericana. La sua è in effetti una vita divisa tra il Velez e la Albirroja, che comanda da capitano sia nella spedizione mondiale francese, conclusasi con una cocente eliminazione agli ottavi di finale per mano dei padroni di casa e di un gol di Laurent Blanc nei tempi supplementari, sia nel mondiale nippo-coreano al servizio di Cesare Maldini.
La breve parentesi allo Strasburgo agli albori del nuovo millennio rafforza la convinzione che Chila non sia tagliato per il calcio europeo, e sicuramente nemmeno il calcio europeo è pronto per le sue sgroppate testarde (anche solo, a volte, per calciare un corner). L’avventura a Strasburgo finisce con la falsificazione di un certificato medico atto a provare l’inidoneità sportiva, necessario per rescindere senza conseguenze il contratto che lo lega alla formazione francese. La bravata gli costerà, oltre allo scherno degli addetti ai lavori, una condanna al pagamento di pena pecuniaria e sei mesi di carcere per illecito (mai scontati).
Una delle tante esuberanze di Chilavert che non gli impedisce però di riprendere la via di casa. Dopo una fortunata parentesi al Peñarol (vittoria del campionato anche in Uruguay), torna a vestire, per l’ultima volta, la maglia del Fortín. Idolo del popolo di Liniers, a fine carriera si ritira con il sesto posto per presenze con la maglia del Velez, 347, condite da 48 gol entrati prepotentemente nella storia. Chilavert appende al chiodo scarpe e guanti a quasi 40 anni con 737 partite giocate e 62 reti nelle squadre di club, alle quali sommare le 8 con la propria nazionale, che rappresentano tuttora un record imbattuto anche dal portiere più prolifico della storia: Rogerio Ceni.
Non sarebbe corretto tuttavia ridurre la carriera di Chilavert alle sue prodezze balistiche o, peggio, deridere la sfrontatezza con cui si permetteva il lusso di attraversare il campo alla ricerca della giocata ad effetto. Chilavert è stato un portiere semplicemente straordinario, anzi il migliore del mondo per ben 3 anni: 1995, 1997 e 1998 secondo la classifica di IFFHS. Reattivo tra i pali, potente nelle uscite, sublime (evidentemente) con la palla tra i piedi, aveva soprattutto il dono innato di esercitare dal fondo del campo la propria leadership in ogni singolo momento delle sue oltre 700 partite.
El Chila però, probabilmente incapace di gestire il fuoco che lo ha sempre animato, non è riuscito a godersi serenamente il ritiro. Le notizie che ciclicamente si rincorrono sul suo conto sono talvolta imbarazzanti, ma spesso in grado di strappare un sorriso. Ancora impegnato nelle ultime partite della sua carriera, si vociferava fosse in predicato per gareggiare nei campionati paraguaiani di Sumo, evidenti illazioni basati sul suo incontrollabile aumento di peso. Nel 2005 poi fu protagonista di un reality sul calcio girato a Miami e, in seguito, dichiarò di voler prendere le redini della propria nazionale e guidarla da capo allenatore, quasi fosse un diritto acquisito spettante all’ex capitano della Albirroja.
Recentemente Chilavert ha provato anche a sfondare in politica ma, mai banale, ha subito puntato all’obiettivo maggiore, affermando di sentirsi pronto a governare il suo paese e promettendo scarpe da calcio e palloni per tutti i bambini paraguaiani (ha evidenziato così la perfetta conoscenza del brocardo latino panem et circenses nel suo secondo termine, ignorando però evidentemente la prima parte del motto che, non a caso, i Romani apposero come elemento principale).
Eccentrico, irriverente, persino megalomane, ma forse semplicemente un uomo che dal calcio ha avuto tutto e che senza di esso si è sentito perso, lui che è sempre stato un riferimento per compagni e tifosi. La pace interiore però, l’omone di Luque, dovrebbe trovarla nella consapevolezza di aver segnato a suo modo la storia del calcio. Indelebile rimarrà il ricordo delle sue partite, così come quel sospiro a mezz’aria che univa così tanti spettatori nell’attesa: i guantoni del Chila sistemavano il pallone, l’arbitro fischiava e in milioni (a tutte la latitudini del pianeta) tifavano per lui e speravano nella magia del suo sinistro. Il portiere che segna, quasi un ossimoro, un cortocircuito del gioco che provoca una scarica di gioia e delirio senza eguali. Il sogno di ogni bambino, diventato realtà.