Una banda di anarchici all'assalto del calcio italiano.
Roma, 12 maggio 1974. Fin dalle prime luci del mattino una cappa di calore grava sulla Capitale. I seggi elettorali sparsi nei quartieri sono pronti a ricevere i cittadini che dovranno votare. È il giorno del referendum sul divorzio, e gli italiani sono chiamati a esprimersi sull’abolizione della legge Fortuna – Baslini. Vincerà il fronte del no, con oltre il 59% dei voti, e sarà una storica sconfitta per la Democrazia Cristiana. Per i tifosi della Lazio e Maestrelli suo allenatore questa è una domenica speciale. Nel pomeriggio l’undici biancoazzurro potrebbe infatti regalare loro il primo tricolore della storia del club. Basterà battere il Foggia e sarà scudetto. L’attesa per il match è spasmodica, già due ore prima dell’inizio lo stadio è gremito in ogni ordine di posti.
Ore 16.50, Stadio Olimpico
Dopo la prima frazione di gioco le due squadre sono ancora sullo zero a zero. Gli ottantamila dell’Olimpico trepidano per le sorti della compagine del cuore e gli spalti pavesati di biancazzurro offrono un contrasto suggestivo con il verde del terreno di gioco e l’azzurro intenso del cielo primaverile. La squadra pugliese, che lotta per evitare la retrocessione, con una condotta accorta ha limitato i danni impedendo ai giocatori biancoazzurri di farsi pericolosi in area di rigore.
Quella in corso è la ventinovesima e penultima giornata del campionato di Serie A. La Lazio guida la classifica con tre punti di vantaggio sulla Juventus, ora ridotti a due, perché la squadra di Torino sta conducendo per uno a zero sulla Fiorentina, grazie a una rete di Anastasi. Nello spogliatoio laziale non si sente volare una mosca. I giocatori sono in attesa delle ultime indicazioni tattiche del loro allenatore.
Tommaso Maestrelli si limita a rivolgere a ognuno un sorriso pacato. Poi, il silenzio viene interrotto dal solito rito scaramantico: una domanda che, dall’inizio del girone di ritorno, i giocatori, a turno, rivolgono al loro allenatore. Si sente Luciano chiedere a voce alta: “Mister, quanti punti mancano allo scudetto?”, e Maestrelli rispondere “ancora due, ragazzi, con altri due punti il titolo è vostro”. A quelle parole, i giocatori della Lazio si guardano senza sentire la necessità di aggiungere altro. Prima di uscire dallo spogliatoio per imboccare il corridoio che li porterà sul terreno di gioco, nelle loro menti scorrono i fotogrammi che hanno accompagnato la loro cavalcata trionfale e, dai loro sguardi, si intuisce che nulla potrà frapporsi al raggiungimento del traguardo tanto agognato: lo Scudetto.
Tutto era iniziato tre anni prima. Dopo la retrocessione della squadra in Serie B al termine della stagione 1970/71, con una decisione che aveva sorpreso un po’ tutti, il presidente Umberto Lenzini e il direttore sportivo Antonio Sbardella decisero di affidare la squadra a Tommaso Maestrelli, anch’egli appena retrocesso con il suo Foggia. Forse, avevano ancora negli occhi il 5-2 con il quale i satanelli avevano umiliato i biancoazzurri allo Zaccaria (il Foggia fu a lungo la sorpresa del campionato, crollando inspiegabilmente solo nelle ultime partite).
Fatto sta che la rinuncia all’allenatore argentino Lorenzo fu accolta con perplessità nell’ambiente laziale. Maestrelli, uomo pacato e di poche, ma efficaci, parole, riuscì però ben presto a farsi seguire da uno spogliatoio storicamente fra i più riottosi, individuando subito colui che sarebbe diventato l’anima emotiva del gruppo: il centravanti Giorgio Chinaglia. Il purgatorio della serie B durò solo un anno, e la squadra capitolina riuscì a risalire nella massima serie arrivando seconda dietro la sorprendente Ternana di Viciani. Chinaglia ne fu il capocannoniere, realizzando ventuno reti.
Perché è lui che, a seconda dei casi, deve vestire i panni dello psicologo, del padre, dell’amico e del confidente. Tommaso Maestrelli alla Lazio fu tutto questo.
Durante la successiva campagna acquisti Maestrelli riuscì a convincere Lenzini e Sbardella ad acquistare il mediano Re Cecconi, fra i suoi alfieri nel periodo foggiano, integrando l’organico con l’ala Garlaschelli, prelevato dal Como, con il portiere Pulici prelevato dal Novara, e rinunciando all’apporto di Giuseppe Massa, ceduto all’Inter in cambio del regista Mario Frustalupi, apparentemente avviato sul viale del tramonto. Il terzino Sergio Pedro Petrelli, proveniente dai cugini della Roma e soffiato in extremis al Palermo, completava la rosa che si apprestava a iniziare la stagione 1972/73.
Questi uomini avrebbero regalato ai tifosi laziali un biennio indimenticabile, frutto di una di quelle rare alchimie che si generano in uno spogliatoio. Quando in un gruppo l’obiettivo comune riesce a trasformare il metallo vile degli egoismi individuali nell’oro dello spirito di squadra, allora sul campo si compie l’opus, e il miracolo sportivo è la quintessenza che accorpa caratteri fisici e metafisici. E di quest’opera, il sommo alchimista non può essere che l’allenatore, colui che guida il gruppo. Perché è lui che, a seconda dei casi, deve vestire i panni dello psicologo, del padre, dell’amico e del confidente. E di quella sorta di mucchio selvaggio, Tommaso Maestrelli fu tutto questo. Sì, perché di un vero e proprio mucchio selvaggio si trattava.
Su c’è “er Maestro” che ce sta a guardà…
In quegli anni non si contano gli aneddoti su un gruppo che girava armato di pistole 44 Magnum, Colt 45 e perfino di un mitra M-16. L’armiere era il terzino Sergio Petrelli, che fece divampare fra i suoi compagni di squadra la passione per le armi, con episodi di macabra goliardia e tragedie sfiorate per un soffio. Come quella volta in cui si sfiorò il dramma durante la vigilia di un derby, quando i tifosi della Roma, che cercavano di disturbare la quiete del ritiro laziale, furono bersagliati da colpi di arma da fuoco sparati dai giocatori dalle finestre dell’Hotel Americana, il ritiro della squadra sulla via Aurelia, nei pressi di Fregene.
In quell’albergo, i calciatori si divertivano a fare il tiro a segno sparando a qualsiasi cosa: alberi, lampioni, suppellettili. Oppure quando un pilota dell’Alitalia si rifiutò di decollare dall’aeroporto di Orio al Serio, dopo aver visto la Santabarbara in possesso dei giocatori. Tor di Quinto, la sede degli allenamenti della squadra, era diventata una specie di armeria, e quel gruppo venne identificato come un covo di pericolosi fascistoidi. Erano quelli gli anni dei tentativi di golpe. Prima, il principe Junio Valerio Borghese, l’ex comandante della X Flottiglia MAS; poi, l’oscura vicenda della Rosa dei venti e del generale Vito Miceli, capo del SIFAR, come a quei tempi si chiamava il Servizio Informazioni della Difesa.
C’erano le bombe neofasciste e la strategia della tensione, e si cominciava a intravedere il salto di livello da parte delle Brigate Rosse. Anni bui, e quella definizione di neofascisti, appioppata con la solennità del doppiopetto a ragazzi che di politica conoscevano poco, e ancor meno se ne interessavano, secondo l’eterna attitudine italica di sentire odore di fritto anche quando non c’è fumo e nemmeno l’arrosto, aleggiava dalle parti di Tor di Quinto come una sorta di stigma sociale.
. Invece erano tutti bravi figli, quei calciatori. Pervasi da dosi di testosterone ai picchi, certo, ma anche capaci di slanci di estrema generosità. Come quando ciascuno di loro versava un contributo di 50 mila lire in una cassa comune per rimpinguare a fine mese gli stipendi del personale più umile della società: dai magazzinieri, ai giardinieri, fino alla lavandaia. Di quel gruppo eterogeneo Maestrelli era il buon padre di famiglia. Mediava, ridimensionava, cercando di incanalare sul terreno di gioco gli istinti di quei ragazzi un po’ scalmanati. E ci riusciva, il maestro.
Come in quel 21 gennaio del 1973, quando undici furie in maglia biancazzurra stritolarono un allora fortissimo Napoli con un rotondo tre a zero (Manservisi, Nanni e Chinaglia). O come la settimana successiva, a Milano, quando la Lazio incantò San Siro annichilendo l’Inter con un primo tempo da favola, portandosi in vantaggio con un rigore di Chinaglia e venendo raggiunta solo grazie a un clamoroso gol segnato di pugno da Boninsegna, irregolarità non vista dall’arbitro Giunti. Vinse entrambi le stracittadine, la Lazio. Il 12 novembre per 2-1 (Nanni), e l’11 marzo per 2-0 (Garlaschelli e Santarini aut.).
In quella stagione 1972/73, successiva alla promozione dalla Serie B, Maestrelli aveva dato alla squadra un’identità precisa e un gioco armonioso. Si cominciava a parlare di Lazio a imitazione dell’Olanda, massimo riferimento calcistico dei tempi; d’altra parte, il credo tattico dell’allenatore era proprio quello del continuo movimento e dello scambio dei ruoli. In una intervista radiofonica a Sandro Ciotti, lo stesso Maestrelli sintetizzò in modo plastico il suo calciatore ideale:
“Deve avere lo slancio di Wilson, l’aggressività di Martini, il fiato di Re Cecconi, la tecnica di Frustalupi e, soprattutto, la voglia di vincere di Chinaglia”.
A proposito dei biancazzurri, Gianni Brera coniò uno dei suoi proverbiali neologismi parlando di eretismo podistico. In quella stagione la Lazio lottò per lo scudetto fino all’ultima giornata. Poi, quando già si profilava l’ipotesi di un clamoroso spareggio a tre fra i biancoazzurri, il Milan e la Juventus, una rete di Cuccureddu siglata al novantesimo contro la Roma all’Olimpico diede lo scudetto ai bianconeri. Durante il successivo calciomercato la dirigenza non ritenne di apportare modifiche, nella consapevolezza di avere un gruppo ormai pronto. Un gruppo al quale si stava aggiungendo il talento cristallino di una giovane promessa del vivaio, l’estroso Vincenzo D’Amico.
Ma come si muovevano sul campo quegli undici giocatori con caratteristiche così diverse, divisi al loro interno in due clan ben distinti, quello capeggiato da Wilson e Chinaglia, e quello di Martini e Re Cecconi? Qual era il file rouge che legava calciatori che si cambiavano in due spogliatoi separati, e che il venerdì, a Tor di Quinto, si sfidavano in interminabili partitelle che potevano finire a sera inoltrata, con i fari delle macchine accesi tutt’intorno perché il campo non aveva illuminazione, in cui nessuno voleva perdere e che spesso terminavano in autentiche risse da Far West?
Era un movimento d’assieme armonico, quello sviluppato dalla Lazio. D’incanto, venivano superati egoismi, invidie, gelosie, rivalità, e il gioco fluiva in un compendio di corsa, fatica e sacrificio. Gli sforzi venivano equamente distribuiti, andando a implementare uno spirito di squadra come raramente si era visto nel nostro campionato. In questo senso si può affermare che l’undici di Maestrelli ebbe in quel biennio una funzione addirittura didattica, spiegando, a chi se lo era dimenticato, che il calcio resta sempre uno sport di squadra.
La rosa, tra Fascismo e Rivoluzione
Davanti al portiere Pulici che, da sconosciuto, divenne con Zoff, Albertosi e Castellini uno dei migliori numeri uno del campionato, si muovevano i due terzini Petrelli (o Facco) e Martini, quest’ultimo abile propulsore, dotato di un dinamismo eccezionale che gli permetteva di farsi trovare quasi sempre smarcato sulla fascia sinistra, pronto a scatenarsi in incursioni incontenibili concluse con cross pericolosissimi. La coppia difensiva centrale, allora si chiamavano stopper e libero, formata da capitan Wilson e da Oddi, era vigile e attenta nel presidiare l’area di rigore, ma anche propositiva nella fase d’impostazione, specie in Wilson, classico libero dai piedi buoni. Chiamato il padrino, Wilson era uno dei leader carismatici dello spogliatoio, nonché inseparabile sodale di Chinaglia.
Il centrocampo era il motore del complesso. Annoverava il sette polmoni Re Cecconi, lo stantuffo Nanni e il classico regista Frustalupi. Le diverse caratteristiche dei tre si integravano alla perfezione, andando a formare un reparto in cui la corsa di Re Cecconi, il dinamismo di Nanni e la tecnica unita alla sapiente regia a tutto campo di Frustalupi, creavano i presupposti per lo sviluppo dell’azione offensiva. L’attacco, affidato alle due ali Garlaschelli e Manservisi, guizzanti e incisive e, specialmente il primo, ideale partner di qualsiasi centravanti, era integrato dalla classe e dall’estro incontenibile di D’Amico, il tipico fantasista dai piedi buoni, come si usava dire a quei tempi, e dalla potenza del bomber Chinaglia.
Alto, dal fisico possente, Chinaglia si muoveva su tutto il fronte d’attacco facendo spesso reparto da solo. In possesso di una progressione impressionante, lo si vedeva ingobbirsi e involarsi verso l’area di rigore avversaria vanamente contrastato dai difensori, per concludere poi l’azione con gran tiri scagliati con entrambi i piedi, anche se il preferito era il destro. Era però nel chiuso dello spogliatoio che si consumava il miracolo calcistico. In quella sorta di sacrario, da sempre luogo inviolabile e custode dei segreti più intimi di una squadra, si celebrava il patto di ferro che legava a un’unica sorte quegli undici individui così diversi fra loro. E l’officiante di quel simbolico rito di mutua assistenza era Tommaso Maestrelli, per cui Gianni Rivera spese queste parole:
“Tutti sanno che Maestrelli valeva molto di più sul piano umano che su quello sportivo. Ma state attenti, sul piano sportivo valeva tantissimo”.
Fu grazie alla profonda umanità di quell’uomo, alla sua flessibilità, alla capacità di empatizzare con lo spogliatoio e di comprendere le necessità di chi aveva di fronte, che una dozzina di giocatori poco più che sconosciuti, provenienti dalle serie minori, oppure avviati a un mesto declino, trovarono lo spirito per inventarsi squadra vincentesorprendendo l’Italia calcistica. Se avevano conti da regolare, Maestrelli li chiudeva nello spogliatoio dicendo loro di chiarirsi, poi di bussare forte per far sì che lui andasse ad aprire. Oppure li chiamava a uno a uno, a volte in coppia – di solito Chinaglia e Martini, leader delle opposte fazioni – e dopo averli fissati negli occhi per alcuni interminabili secondi, cominciava a parlare d’altro, interessandosi alle loro vicende personali, anche le più intime.
Quella sorta di incantesimo funzionava perché, tutto ad un tratto, la tensione si stemperava e tutto ritornava nella normalità. In quel gruppo c’era chi era un profondo credente e non perdeva una funzione di padre Antonio Lisandrini, il frate cappuccino che sosteneva e seguiva la squadra. C’era chi si dilettava con il paracadutismo, in attesa di intraprendere la carriera di pilota di aerei; chi si impegnava negli esami all’università per laurearsi in giurisprudenza, e chi passava tutte le sere in discoteca o nei night club. E poi c’era lui: Giorgio Chinaglia, detto Long John.
Chinaglia personificava tutta la stravaganza naïve e lo spontaneismo generoso che aleggiava nello spogliatoio laziale; e lo faceva sia quando sfrecciava di notte per le vie della capitale a bordo della sua Jaguar con l’immancabile giubbotto di renna con le frange, che non riusciva a nascondere l’ingombro della 44 Magnum – specie dopo le minacce ricevute dai tifosi romanisti a seguito della corsa del centravanti sotto la curva Sud, in occasione del gol decisivo nel derby di ritorno nella stagione dello scudetto – sia quando, in campo, si avventava contro gli avversari per difendere un compagno in difficoltà.
Non si può addomesticare un ribelle
Generoso, irascibile, istintivo. Chinaglia era il maglio con il quale il complesso scardinava le difese avversarie. In partita, dava tutto se stesso fino allo sfinimento. Al ritorno dallo stadio, sul pullman, era così privo di forze che i compagni, per evitargli svenimenti, dovevano far sosta in qualche supermercato per fare provviste e rifocillarlo. Cresciuto in Galles, dove i suoi genitori erano emigrati quando lui era un bambino (suo padre lavorò a lungo in miniera, prima di aprire un ristorante a Cardiff), il centravanti disputò alcune stagioni da autentico protagonista, che lo catapultarono a furor di popolo in Nazionale. La sua avventura in maglia azzurra si concluse mestamente a causa del famoso gestaccio in diretta televisiva rivolto all’allenatore Valcareggi, durante il mondiale disputato in Germania.
L’anno dello Scudetto
La stagione 1973/74, quella dello scudetto, fu una cavalcata memorabile, condita da prestazioni maiuscole. Gli ostacoli da superare erano molti, perché sia le squadre di Torino (la Juventus di Zoff, Capello, Causio e Bettega, e il Torino di Claudio Sala, Graziani e Pulici) che quelle di Milano (il Milan di Rivera, Benetti e Chiarugi, e l’Inter di Facchetti, Boninsegna e Mazzola), senza contare lo spumeggiante Napoli allenato da Vinicio, erano compagini agguerrite e attrezzate per vincere.
Iniziata sotto i migliori auspici con una sonante vittoria a Vicenza per tre a zero, il cammino dei laziali fu contraddistinto da una serie di vittorie prestigiose. Come nei due derby, entrambi vinti in rimonta col risultato di 2-1, dopo aver chiuso in svantaggio il primo tempo. Nel derby di ritorno ci fu il famoso episodio del dito puntato verso la curva Sud da parte di Chinaglia. La vigilia di quel derby fu incandescente. La Roma era distante undici punti dalla Lazio capolista e precedeva di pochi punti la zona salvezza.
La rete decisiva fu segnata proprio da Long John, su rigore. Non contento, il centravanti corse verso la curva Sud e puntò il dito verso i tifosi romanisti. Giorgio Chinaglia contro tutti.
Dopo le interviste polemiche rilasciate prima della partita, Chinaglia era atteso al varco dai tifosi romanisti. La Lazio andò sotto nel primo tempo, e nel giro di cinque minuti, a inizio ripresa, ribaltò il risultato. La rete decisiva fu segnata proprio da Long John, su rigore. Non contento, il centravanti corse verso la curva Sud e puntò il dito verso i tifosi romanisti. Giorgio Chinaglia contro tutti. Quando un giocatore entra nel cuore dei tifosi? Quando riesce a rappresentarli, specie quelli della curva, caricandoseli simbolicamente sulle spalle e facendosi interprete dei loro sentimenti.
In quella domenica di fine marzo, la figura in carne e ossa di Giorgio Chinaglia si trasformò in icona pop, e quel dito puntato verso la curva avversaria diventò l’illustrazione ideale incisa sulla bandiera che ogni tifoso laziale vorrebbe sventolare almeno una volta nella propria vita. (i tabellini dei due derby: 9 dicembre 1973, Lazio v Roma 2-1, reti di Negrisolo, Franzoni e Chinaglia; 31 marzo 1974, Roma v Lazio 1-2, reti di Pulici aut., D’Amico e Chinaglia rig.).
Raggiunta la vetta della classifica alla decima giornata, la Lazio non la lasciò più rivaleggiando a lungo con la Juventus. Il 17 febbraio, allo stadio Olimpico, si disputò lo scontro al vertice che poteva valere il titolo. Era un momento delicato, per i biancoazzurri, che erano stati sconfitti sette giorni prima a Genova dalla Sampdoria per 1-0, mentre, i bianconeri, vittoriosi nella stessa giornata per 4-1 sul Napoli, si erano fatti sotto portandosi a soli due punti dalla capolista.
Alla vigilia della diciottesima giornata la classifica recitava: Lazio punti 25, Juventus punti 23. In quella domenica di febbraio la Lazio sfoderò una delle sue migliori prestazioni di sempre battendo i campioni d’Italia bianconeri per 3-1 (di Garlaschelli, Chinaglia (2) e Altafini le reti), staccandoli così di quattro lunghezze. In seguito, nonostante la sconfitta patita il 17 marzo a San Siro da parte dell’Inter, la Lazio riuscì a mantenere un vantaggio di alcuni punti sui piemontesi.
I laziali aspettarono a lungo i rivali veronesi che, al loro ritorno sul terreno di gioco, trovarono ad attenderli undici pistoleri pronti ad assalire il fortino nemico. Risultato finale: 4-2 per la Lazio.
. Fino a che il 14 aprile 1974 si disputò una di quelle classiche partite che rappresentano un punto di svolta della stagione. Sono match nei quali la squadra fortifica la consapevolezza delle proprie qualità, pietre d’inciampo poste sul cammino che, se superate, portano il gruppo a involarsi verso l’obiettivo prefissato sorvolando qualsiasi ostacolo. Quella domenica all’Olimpico era di scena il Verona. Alla fine del primo tempo gli scaligeri conducevano inopinatamente per 2-1 grazie all’estro di uno scatenato Zigoni.
La Lazio sembrava irriconoscibile. I giocatori biancazzurri rientrarono nello spogliatoio per l’intervallo in silenzio, ma bastarono poche parole del loro allenatore per rasserenarli e farli tornare immediatamente in campo dopo pochi minuti. I laziali aspettarono a lungo i rivali veronesi che, al loro ritorno sul terreno di gioco, trovarono ad attenderli undici pistoleri pronti ad assalire il fortino nemico. Risultato finale: 4-2 per la Lazio (di Garlaschelli, Nanni e Chinaglia le reti che nella ripresa ribaltarono il risultato). Si arrivò così alla penultima giornata. A quel fatidico 12 maggio. La classifica recitava: Lazio 40, Juventus 37.
Una dimostrazione di forza caratteriale clamorosa
12 maggio 1974, Roma, stadio Olimpico, ore 16.55
Il tempo canonico dedicato all’intervallo sta per terminare. I calciatori si apprestano a fare il loro ritorno sul campo. Tutto a un tratto echeggia il rituale grido che Giorgio urla a se stesso per galvanizzarsi, “Andiamo, Chinaglia, andiamo!”. Gli ottantamila presenti sugli spalti stringono idealmente i loro beniamini in un caloroso abbraccio. I ventidue giocatori prendono posizione, l’arbitro dà finalmente il fischio d’inizio e il gioco può riprendere.
Dopo cinque minuti Luigi cade, si rompe la clavicola ed è costretto ad uscire. Lo sostituisce Polentes. Al quattordicesimo minuto un fallo di mano in area foggiana causato da un cross di Renzo procura un rigore ai biancoazzurri. È il momento fatidico. Si vede Giorgio raccogliere la sfera e deporla accuratamente sul dischetto. Poi, dopo una breve rincorsa, spiazzare il portiere foggiano Trentini con un destro preciso e radente. Il risultato non cambia più.
Al fischio finale dell’arbitro Panzino di Catanzaro, la Lazio può festeggiare il primo scudetto della sua storia calcistica. La folla è in delirio e migliaia di vessilli biancoazzurri sventolano sugli spalti dello Stadio Olimpico. I tifosi, entrati in massa sul terreno di gioco, portano in trionfo tutti: dai giocatori a Tommaso Maestrelli – con i suoi adorati gemelli Massimo e Maurizio – dal vice allenatore Bob Lovati al dirigente accompagnatore Gigi Bezzi. Infine, anche Umberto Lenzini, presidente bonario e gentiluomo. La sera festeggiano tutti fino all’alba al Jackie O’. Tutti, tranne Maestrelli, che torna a casa per godersi il successo in famiglia. Alle 17,45 di quel 12 maggio del 1974, si è conclusa l’entusiasmante cavalcata della Lazio iniziata otto mesi prima, il 7 ottobre 1973.
La morte di Tommaso Maestrelli
Purtroppo, come spesso accade, il piacevole incantesimo che ha avvolto i tifosi della Lazio in quell’irripetibile biennio è destinato a svanire. Fosche nubi si profilano all’orizzonte, e la tragedia si annida dietro l’angolo. Il 30 marzo 1975, al termine di Bologna-Lazio, Tommaso Maestrelli si sentirà improvvisamente male. Verrà accompagnato in ospedale per degli accertamenti che daranno un responso terribile: cancro. Inizierà un lungo calvario che porterà l’allenatore ad abbandonare la squadra per intraprendere dolorose terapie.
A un certo punto le cure sembrano avere effetto, e i giocatori convinceranno Lenzini a richiamarlo in panchina. Nella primavera del 1976 Maestrelli tornerà appena in tempo per salvare la squadra dalla retrocessione. Nell’aprile di quello stesso anno, Chinaglia, il centravanti totem, saluterà tutti per andare a giocare nei Cosmos di Pelé. La malattia del suo allenatore mentore, e il richiamo della famiglia – la moglie Connie si è trasferita a New York con i due figli – lo convinceranno a lasciare l’Italia per trasferirsi negli Stati Uniti.
In autunno, le condizioni di Maestrelli torneranno ad aggravarsi, e il 28 novembre 1976 l’allenatore entrerà in coma. Tommaso Maestrelli, il maestro, l’allenatore saggio, si spegnerà in una triste giornata di dicembre all’età di 54 anni. Tutti i suoi giocatori e tutto il mondo del calcio piangeranno l’uomo mite e riservato che era riuscito a portare umanità e pacatezza in un ambiente troppo spesso preda di isterismi e infantilismi. Ma i giorni infausti per la società del presidente Lenzini non sono ancora finiti.
L’omicidio Re Cecconi e il calcio-scommesse
Il 18 gennaio 1977 Luciano Re Cecconi, il biondo Cecconetzer, il centrocampista motore della squadra, verrà ucciso da un colpo di pistola sparato da un gioielliere in circostanze mai del tutto chiarite. Si parlerà di uno scherzo, di una frase che il giocatore avrebbe pronunciato appena entrato nella gioielleria con il compagno di squadra Ghedin, frase che indurrà il proprietario, già oggetto di alcune rapine nel passato, a far partire un colpo dalla sua pistola.
Quel colpo, purtroppo, non lascerà scampo al ventinovenne centrocampista. Ma non basta. Qualche anno dopo, capitan Wilson, Chinaglia e il giovane Lionello Manfredonia saranno coinvolti in una clamorosa inchiesta sulle scommesse clandestine e pesantemente puniti con una squalifica che trascinerà la squadra alla rovina.
Saranno anni bui, e l’onta della retrocessione tornerà ancora a rattristare i tifosi laziali. Tuttavia, per tutti coloro che hanno ammirato quella squadra tricolore correre a perdifiato sul tappeto verde dello Stadio Olimpico, rimarrà per sempre il ricordo di un periodo irripetibile. Il ricordo di undici ragazzi che sul terreno di gioco alternavano gli additivi dell’aggressività con gli ottani della resilienza, riscoprendo il senso dell’onore e dell’amicizia, e avventandosi sugli avversari alla stregua di pistoleri romantici. Tutti per uno, uno per tutti. Un po’ come i protagonisti del film di Sam Peckinpah. Anarchici, eccentrici, forse un po’ decadenti: un vero e proprio mucchio selvaggio.
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Liberamente ispirato al libro “Pistole e palloni”, di Guy Chiappaventi