È arrivato il momento di azzerare la governance del calcio nazionale.
I have, myself, full confidence that if all do their duty, if nothing is neglected, and if the best arrangements are made, as they are being made, we shall prove ourselves once again able to defend our Island home, to ride out the storm of war, and to outlive the menace of tyranny, if necessary for years, if necessary alone. At any rate, that is what we are going to try to do. Winston Churchill così si rivolgeva alla Camera dei Comuni nell’ultimo dei celebri discorsi al Parlamento tra il maggio e il giugno del ’40. Lo statista britannico esortava la nazione alla concordia davanti alla minaccia di un’invasione nazista: fermezza, richiamo all’unità, carisma. Questo un esempio di leadership in momenti difficili.
Il coronavirus non è il pericolo nazista ma è un problema che da serio può tramutarsi in drammatico. Ci conviviamo, in Italia e in Europa, da meno di due settimane e tutti noi stiamo facendo i conti con una quotidianità mortificata. Sospesi tra la psicosi collettiva e un ottimismo di maniera, per la prima volta nelle nostre vite di bianchi privilegiati occidentali siamo chiamati a dover fronteggiare un nemico che non conosciamo e che può mettere a repentaglio la nostre salute e, speriamo per il minor tempo possibile, il nostro stile di vita.
Poi vi sono le infinite sfaccettature dell’italianità: anarchismo congenito, egoismo d’opportunità, lauree in virologia prese al bar e insofferenza agli imperativi di un popolo che patisce l’ordine e spesso galleggia tra irresponsabilità individuale e grande spirito di solidarietà.
In situazioni come quella che stiamo vivendo ognuno di noi dovrebbe sottostare al principio di responsabilità morale: condurre una vita normale nella consapevolezza che vinceremo questa battaglia se uniti in una coscienza collettiva costruita su equilibrio, ragionevolezza ed altruismo. In un paese in cui si parla troppo di diritti e troppo poco di doveri.
La migliore Italia è in prima linea nell’emergenza, da un personale sanitario chiamato a superare se stesso, alla comunità scientifica impegnata contemporaneamente alla ricerca e alla divulgazione consapevole. Poi vi sono le infinite sfaccettature dell’italianità: anarchismo congenito, egoismo d’opportunità, lauree in virologia prese al bar e insofferenza agli imperativi di un popolo che patisce l’ordine e spesso galleggia tra irresponsabilità individuale e grande spirito di solidarietà.
I media poi, in questi giorni convulsi, si sono alternati tra fasi isteriche e richiami esagitati ad una fiducia ahinoi precoce, il tutto sottovalutando il ruolo cruciale che rivestono nella corretta circolazione delle informazioni, fondamentale per evitare crisi di panico collettive assolutamente ingiustificate. In tutto questo le autorità governative e locali sono chiamate al ruolo storico di dover fronteggiare l’emergenza coronavirus – nel continuo disagio di un sistema politico disintegrato, mai coeso e naturalmente predisposto allo scontro – mentre tentano con tutte le forze di scongiurare il rischio pandemico ed il collasso economico.
Tra pressapochismi e decisioni impopolari, il governo e le regioni stanno giungendo alle ineluttabili conclusioni consigliate dalle massime autorità scientifiche, le uniche adatte al contenimento del problema. Nel marasma generale, nel frattempo, ai confini d’Europa preme il ricatto del sultano Erdogan mentre negli USA il partito democratico sta scegliendo nelle primarie lo sfidante del presidente Trump all’elezioni del 2020: questi gli unici diversivi d’informazione che ostacolano il monopolio mediatico del coronavirus.
Coni, Figc, Lega, presidenti caricatura, manager avviluppati nel tentativo di salvare il salvabile dei tanti milioni che andranno in fumo come gran parte dell’economia reale colpiti dalla crisi. Una corte dei miracoli che sta offrendo ai milioni di tifosi un avanspettacolo empio, platealmente guidata da interessi specifici e da nessuna visione sistemica in tempo di guerra, figurarsi di pace.
Ma in questo legittimo monopolio l’unico tema riuscito ad insinuarsi nel dibattito collettivo è stato il calcio. Non per quello giocato, che fa parlare sempre meno perché si gioca poco o nulla, ma per quello politico. Scoppiata la crisi a fare le spese delle ordinanze restrittive sono state quattro le gare della 25ma giornata di campionato ad esser state rinviate per dover giungere negli ultimi giorni alla non discutibile decisione di rinviare sei decimi della 26ma giornata e le due semifinali di ritorno di Coppa Italia.
Nel mezzo, il caos: partite di coppe europee giocate a porte chiuse, tifosi bergamaschi lasciati imprudentemente andare in trasferta a Lecce, un nauseante botta e risposta tra presidenti e dirigenti. Juve-Inter, il Dio danaro, la salute pubblica, l’ordine costituito. Accettiamo lo stato delle cose: come tutti gli attori in campo, neanche lo sport poteva immaginarsi una situazione simile, per giunta in continua evoluzione, ed è comprensibile che si sia mostrato impreparato e spaesato alla sfida.
Europei sotto osservazione costante, Olimpiadi di Tokyo continuamente al centro della discussione per la possibilità di essere rinviate o, Dio non voglia, annullate. Ciclismo, motori, basket: tutti gli sport, soprattutto se organizzati su scala globale, fanno i conti con l’epidemia e tentano di dare risposte pratiche come meglio possono. Il calcio italiano, no. Non ne facciamo una questione di metodo o di organizzazione, plausibili gli errori di valutazione e l’incapacità di rispondere tempestivamente ad uno scenario in continua mutazione.
Ne facciamo una questione politica: nessuno dei protagonisti sta mostrando il minimo buon senso. Logiche feudali, clientele opportunistiche, schizofrenie inappropriate di una governance talmente inadeguata, insolente e cinica da far rabbrividire. Coni, Figc, Lega, presidenti caricatura, manager avviluppati nel tentativo di salvare il salvabile dei tanti milioni che andranno in fumo come gran parte dell’economia reale colpita dalla crisi. Una corte dei miracoli che sta offrendo ai milioni di tifosi un avanspettacolo empio, platealmente guidata da interessi specifici e da nessuna visione sistemica in tempo di guerra, figurarsi di pace.
Può cogliersi l’occasione per una riforma radicale che permetta di ponderare come è costruita la governance del calcio italiano e su quali assetti di potere è costruita.
Provare a contemperare i due beni in gioco, prevenzione e valore economico del calcio, è forse utopistico e si è facilmente dovuti approdare ad una decisione autoritaria da parte del governo per imporre l’unica opzione possibile: giocare a porte chiuse e mandare avanti il campionato sul campo. Il coronavirus e l’emergenza causata ha riportato il calcio italiano allo scenario delle guerre mondiali, momento storico in cui le schermaglie tra presidenti non avevano diritto di cittadinanza.
Partigianerie, conti della serva per bilanci sempre moribondi, incastri di calendario impossibili. Che fare con questi personaggi? Può cogliersi l’occasione per una riforma radicale che permetta di ponderare come è costruita la governance del calcio italiano e su quali assetti di potere regge. Resettare il tutto per poter ristabilire ordine e sviluppo per il nostro calcio. Giocare a porte chiuse sarà uno spettacolo deprimente, o come scriveva Brera
“giocare sul fondo di un cratere lunare o, che è immagine un poco più attendibile, sotto qualche metro di acqua limpida”,
ma è allo stato l’unica opzione percorribile, si spera per il minor tempo possibile. Oltre che un’enorme opportunità di divertissement e leggerezza per tutti i cittadini. Finita l’emergenza e messa alle spalle questa terribile situazione i padri-padroni del nostro pallone saranno ancora lì, e nessuno può cacciarli dalla propria società seppur il modello tedesco sarebbe perfetto per il nostro patrimonio sportivo-culturale, ma è nostra responsabilità creare un movimento d’opinione che tolga a questi meschini il potere che esercitano.