Il miglior Sei Nazioni della storia della palla ovale italiana impone delle riflessioni.
Non so nel resto del mondo, ma in Italia quando le cose vanno male si scatena sempre la caccia al colpevole e, quando vanno bene, all’eroe. Popolo passionale per antonomasia («Italians do it better», cit.) nelle due opposte situazioni necessita comunque di un solo nome da esecrare o acclamare, spesso consecutivamente. Dopo il miglior Sei Nazioni della storia della palla ovale italiana (un quarto di secolo effettivo di sogni e delusioni per l’Italrugby) e l’ingresso (prima volta) nel G8 mondiale, che nome dovremmo dunque gridare più alto di tutti?
Da dove nasce il successo odierno dell’Italrugby?
Di seguito alcune ipotesi, con necessarie premesse e finale aperto. Ormai tredici estati fa, a Padova, si tenne la finale dei Mondiali giovanili Italia 2011. Un’edizione interamente giocata nel Triangolo d’oro del rugby italiano (Rovigo, Treviso e, appunto, la città del Santo) che aveva regolarmente riempito gli stadi, così come gli occhi degli appassionati. A contendersi il trofeo erano stati Inghilterra e All Blacks, con i secondi a prevalere al triplice fischio e l’allora presidente della Fir, Giancarlo Dondi, a premiarli sul palco d’onore eretto rapidamente al centro del campo, al termine dell’incontro.
Chi era presente (10.000 cristiani, grosso modo) non può non ricordare le impressionanti bordate di fischi che accolsero ripetutamente il nome di quella sorta di Giolitti della politica ovale tricolore. “Il presidente della Fir, Giancarlo Dondi” seguitava a ripetere l’annunciatore al microfono, evidentemente non collegando la causa dei fischi alla semplice pronuncia del nome. Pare che l’interessato, punto sul vivo, abbia mormorato a mezza bocca, a chi gli era prossimo:
“Questa è l’ultima volta che un Mondiale giovanile si gioca in Veneto”.
Ha avuto ragione, del resto: di rassegne iridate U20, da allora, in Italia se ne sono giocate altre due, ma entrambe qualche chilometro più a ovest, in Lombardia (su questo torneremo in seguito).
La ragione della pubblica condanna era evidente: Dondi era stato la mente (e il braccio) dell’assassinio del Super 10, allora massima espressione del rugby di club in Italia. In quell’anno, infatti, due società italiane mascherate da franchigie (Treviso e Viadana) erano state rimosse dal «campionato domestico» con l’incarico di rappresentare il Paese nella lega nota come Celtic League, in seguito Pro 14, oggi United Rugby Championship. Una decisione controversa e per sommi tratti dolorosa, che avrebbe mietuto vittime collaterali anche illustri: piazze storiche come L’Aquila, Rovigo, Petrarca (appunto). Centri determinanti nella storia ovale italiana, tradizionali fucine di talenti, escluse ex nunc dal vertice del movimento, di fatto senza possibilità di appello.
Il tempo, sempre galantuomo, ha in parte reso onore al presidente Dondi.
Se la decisione di affossare il campionato domestico ha sortito effetti negativi che ancora oggi presentano strascichi grotteschi e dolorosi (vedasi, fra l’altro, la polemica club di Serie A Elite versus Federazione) essa ha d’altra parte contribuito a condurre il movimento alla crescita che ci si auspicava al tempo. Una crescita che non è solo sportiva (i risultati di Benetton Treviso e Zebre Parma sono oggi effettivamente soddisfacenti, dopo un lungo, tortuoso percorso) ma anche finanziari.
Ciò che aveva visto il presidente Dondi erano infatti i modelli economici che governano lo sport professionistico, ad ogni latitudine. Da che il Rugby Union aveva abbandonato al propria plurisecolare veste dilettantistica (1995), il paradigma era completamente mutato e la sostenibilità finanziaria era divenuto il cardine essenziale della struttura. Semplicemente, club italiani non avevano le possibilità economiche di sorreggere efficacemente l’intero movimento e mai le avrebbero avute. Ma si poteva pensare di individuare un paio di club capaci di farlo. Uno era il Treviso, sostenuto dall’impero multinazionale della famiglia Benetton.
L’altro si rivelò un calcolo errato: la minuscola Viadana (Mantova), per quanto coperta dalla Regione Lombardia, fallì dopo pochi anni, sostituita dalle Zebre (sede a Parma, città natale dello stesso Dondi), con generosa dotazione proprio della Fir, a coprire i buchi (che oggi pare vadano infine appianandosi). É una tendenza che si riconosce identica in tutto il mondo: dalla Scozia all’Australia alla stessa Nuova Zelanda, che non può permettersi un campionato esclusivamente domestico e tenta di tenere in vita il Super Rugby, pur sconvolto nella propria formulazione dalla pandemia. E non solo nel mondo del Rugby: si pensi alla vicenda della Superlega di calcio, analoga nelle premesse come nei fini.
Gli unici movimenti che possano permettersi campionati esclusivamente nazionali sono quello francese e inglese. Il secondo, per altro, con più di qualche recente scricchiolio.
Nel 2013 l’Italia batté al Sei Nazioni Francia e Irlanda, segnando la propria miglior partecipazione di sempre al torneo e vedendo spianato di fronte a sé un futuro quantomeno promettente. I numeri dei tesserati erano in crescita vertiginosa, così come le presenze allo stadio, passato dal piccolo (incantevole) Flaminio al più prestigioso Olimpico. A contribuire ai risultati numerici era stata in buona misura l’abile narrazione, impostata dall’Ufficio stampa della Fir, sul «Rugby sport di valori», mantra comunicativo azzeccatissimo, ancor più in un momento di diffusa insofferenza per gli spaventosi eccessi del mondo calcistico.
Da quel momento in poi tuttavia, inaspettatamente, tutto iniziò a declinare.
Dalle trenta-e-passa sconfitte consecutive della Nazionale alle voci di una prossima esclusione italiana dal Sei Nazioni, dalla discesa al 15° posto nella classifica globale, passando per le continue batoste di Treviso e Zebre.
Cosa era accaduto?
Tutti gli indizi portano all’elezione del presidente più divisivo e controverso della storia del movimento rugbistico italiano, A. Gavazz* (damnatio memoriae), storica colonna economica, sportiva e dirigenziale del Calvisano, omonimo club del minimo centro lombardo che in breve tempo finì per assorbire, entro i propri ristretti confini, buona parte della complessa macchina federale: dalla Commissione arbitri sino a svariati uffici Fir e agli stessi Mondiali giovanili di cui sopra, inspiegabilmente giocati nel mezzo di quell’Oceano padano fatto di stalle, capannoni, «burro e letame».
I numeri della gestione sopra detta sono impietosi e segnano un calo drammatico nei risultati: sportivi (sopra accennati); finanziari (bilancio sistematicamente in rosso); di iscritti (complice il Covid). Agli stessi coincise una inversamente proporzionale impennata dei risultati del Calvisano Rugby, che sotto la presidenza Fir dello stesso Gavazz* giunse a vincere cinque dei sette scudetti della sua storia. Il Calvisano a pochi mesi dalla morte del presidente (ottobre 2022) annunciò fallimento, ripartendo (settembre 2023) dalle serie minori.
L’aspetto che più dovrebbe impressionare dei recenti successi dell’Italrugby non riguarda il campo, ma il suo intorno: gli spalti.
Nella partita casalinga contro la Scozia, l’Olimpico ha registrato per la prima volta nella propria storia rugbistica il tutto esaurito, con 70.000 spettatori.
Ragioni ancora una volta eminentemente economiche spingono a guardare a un simile risultato come a una vera svolta, capace di riflettersi su risorse e risultati del rugby di base: la quasi totalità dei praticanti e delle società, che tuttavia dipende in toto (finanziariamente) dalla triade Treviso-Zebre-Nazionale, agganciata all’altissimo (e ricchissimo) livello internazionale.
Il secondo dato di rilievo è la sistematicità con cui la Nazionale under 20 ottiene risultati in ambito internazionale, garantendo afflusso continuo di nuovi talenti non solo agli Azzurri seniores, ma anche alle solite Benetton e Zebre, oltre che ai club di A Elite. La riforma organica dei campionati che la Fir sta attualmente portando avanti, va nella direzione giusta, stabilendo una collaborazione diffusa e gerarchica, che potrebbe alzare il livello generale e aumentare la base dei giocatori di alto livello. Tale riforma risulta ad oggi, tuttavia, contestata dalla maggior parte dei club di Serie A Elite e non sappiamo se riuscirà a vedere organicamente la luce.
Anche il sistema delle accademie è stato riformato dalla attuale amministrazione federale, mettendo quelle di Treviso e Parma al vertice di una filiera più ampia di selezione, che ritarda ai 17-18 anni il momento della vera scrematura e finalmente coinvolge i club e i comitati regionali nella formazione e gestione dei possibili talenti.
L’ultimo dato (visibile) decisivo per i successi del movimento è una scommessa vinta dell’attuale presidente, Marzio Innocenti, che alla vigilia dello scorso (prevedibilmente infelice) Mondiale aveva annunciato la mancata riconferma di Kieran Crowley – cittì neozelandese acclamato in maniera trasversale in Italia – in favore dell’ex allenatore dello Stade Français, Gonzalo Quesada. Sommerso dalle critiche, Marzio Innocenti oggi giustamente gongola, rivendicando la bontà della scelta, che ha dato solidità difensiva e dominio in mischia chiusa a un gruppo giovane ma già diffusamente consolidato e che già aveva avuto occasione di fare intravedere il talento di quella che sembra una vera «generazione d’oro».