La Roma torna a vincere in Europa dopo oltre 60 anni.
«Voi ce scherzate e ce ridete… la coppetta, la coppa del nonno, ma io c’ho 60 anni e un trofeo della Roma non l’avevo mai visto» – «un trofeo internazionale, vuoi dire…», gli ribatto – «sì… vabbè che pure l’altri ormai chi se li ricorda più». Questo è stato il primo scambio di battute avuto oggi qui, a Roma, con il barista sotto casa. D’altronde erano 61 anni che la squadra non vinceva un torneo europeo, la Coppa delle Fiere del 1961, e 14 che non sollevava al cielo qualcosa, la Coppa Italia del 2008. Così si spiega un entusiasmo straripante, anche irrazionale, eccessivo, che ha investito la città, esplodendo impetuoso tanto al centro quanto nelle periferie.
Ogni quartiere della Capitale ieri sera è stato preso d’assalto, si è tinto di giallorosso, ha sventolato sciarpe e bandiere; caroselli di clacson e cori a squarciagola che hanno disturbato fino a notte fonda la quiete di laziali, tifosi di altre squadre e atei del pallone. Difficile pensare che la città di stamattina, così calma, sospesa, apparentemente anche senza traffico, sia la stessa di ieri o semplicemente di qualche ora fa. Sembra che Roma si sia fermata – e chi lavora domani, si ripeteva ieri sera per strada, dove c’è chi aveva anche un piccolo stendardo con su scritto “siamo tutti in smartworking” o qualcosa cosa del genere, e che difficilmente oggi sarebbe riuscito a presentarsi in ufficio.
È anche per questo, anzi è per questo, che tutti i giocatori romanisti hanno dedicato la vittoria europea ai tifosi: da Smalling, – che Dio lo benedica, sempre per citare commenti del popolo giallorosso, e come dargli torto – allo stesso Zaniolo, da Mkhitaryan al capitano Pellegrini:
«È per loro», indicando i tifosi della Roma, intervistato subito dopo la partita. «Non c’è nulla da dire. Guardateli. Guardateli… non ci sono parole».
È difficile spiegare, come recita un vecchio coro della Curva Sud, gioie e giornate amare, lascia stare, tanto mi potrei trovare qui, notte e giorno al tuo fianco…. Proprio come quei 166 “eroi” che si sono presi la neve e sei gol a Bodo, e hanno avuto il biglietto omaggio riservato dalla società, o chi ha seguito la squadra sempre e al di là dei risultati. Stavolta niente giornate amare, ma solo una grande gioia. E come ha detto Karsdorp: «è una coppa europea, me ne frego di chi dice che non sia la Champions o l’Europa League, è un grandissimo titolo per me». È questo lo spirito dei tifosi romanisti, tornati finalmente a vincere. Vincere, come se fosse una cosa da poco. Vincere un trofeo europeo, e forse per spezzare la maledizione romanista ci voleva solo lui: José Mourinho. Perché è lui l’uomo copertina oggi, che nonostante i quasi 60 anni e i 34 trofei vinti continua a commuoversi dopo una vittoria, fino a sciogliersi nelle lacrime e a non riuscire quasi a parlare.
A proposito di Bodo, quando mesi fa scrivevamo all’indomani della disfatta giallorossa che Mourinho non avesse affatto perso il controllo della squadra e spaccato lo spogliatoio – come qualche commentatore aveva sbrigativamente affermato –, ma che anzi la sua fosse una strategia, dura, per tirare fuori il meglio dai suoi, in molti ci avevano accusato di difendere un allenatore bollito, superato, simbolo e metafora di un calcio vecchio e maleducato. Nerd nel pallone che di uomini ne hanno sempre capito poco, convinti che il football si riduca al suo espetto più esteriore, il “gioco” che si vede in campo, e che attraverso di esso pensano di interpretare qualsiasi cosa.
Chissà come spiegherebbero le 5 finali europee su 5 vinte da Mourinho. Forse con il caso, o con il fatto che le finali non si giocano, si vincono, come i derby – con tutto che in finale bisogna sempre arrivarci. Questo è un altro aspetto che dimostra tutta l’ideologia di chi pensa che un progetto si possa sviluppare solo passando dal miglioramento del gioco; che allenatori più “gestori”, come Mourinho, non siano in grado di far crescere una squadra. Al contrario la crescita di un club passa anche dalla mentalità, dal carattere, da un allenatore che riesce a rendere i suoi giocatori degli uomini, non più ragazzi che si sciolgano alla prima difficoltà, come capitava fino all’anno scorso; capaci di portare a casa partite dure, brutte, sporche e cattive, di fare uno step in più a livello mentale; di vincere per 1-0 di testa, di cuore e di sofferenza.
E quanto ha sofferto la Roma, anche ieri. A proteggere il proprio fortino e la propria porta, dando fondo a tutte le energie di cui disponeva. Uomini, prima che giocatori. Questo poteva portarlo solo Mourinho. E questa coppa a Roma, probabilmente, poteva portarla solo Mourinho
“Ma la Roma gioca male”, obiettano i critici. Lo ha dimostrato spesso in questa stagione e anche ieri sera, quando è stata costretta ad affidarsi alla versione mourinhana della nostra tradizione calcistica, il Santo Catenaccio, per difendersi dagli assalti di un Feyenoord, con il passare dei minuti, atleticamente assai più brillante dei giallorossi. Va bene, e quindi?Cosa resta di tutti questi bei discorsi quando si porta a casa un trofeo?Poco, anzi nulla. Il calcio è fatto di vittorie e i tifosi vogliono questo, altro che le masturbazioni tattiche e statistiche da salotto, tanto fumo e poco arrosto: i tifosi hanno fame, e a Roma si è visto quanto può pesare un digiuno.
Come scrive Roberto Beccantini, Mourinho è uno interessato alla polpa piuttosto che agli “ismi”. All’arrosto da mettere in tavola per saziarla quella fame, sua e dei suoi. Ai trofei che ha vinto ovunque è andato, nazionali e internazionali. Ma sarà un caso. Nel mentre, come detto, con il portoghese la Roma sta programmando, sta crescendo come club. In tanti oggi minimizzano il valore del trofeo e della vittoria, e certo la Conference non è la Champions o l’Europa League, ma vincere aiuta a vincere: porta convinzione, entusiasmo, mette un primo macigno in un processo di crescita che deve essere solo all’inizio, nell’obiettivo che la Roma torni entro qualche anno tra le grandi del nostro calcio.
In questo processo lo stile di gioco era l’ultimo problema di una squadra fragile, umorale se non proprio bipolare, che perdeva tutti gli scontri diretti e si disuniva alle prime difficoltà.
Mourinho ha invece posto le fondamenta di una nuova Roma: più gagliarda, più convinta, che si abitui pian piano all’idea di vincere, e non importa come. Non importa il merito, né il “gioco”. La crescita della squadra passava per la convinzione, non per l’ennesimo profeta del bel calcio che sprofondasse regolarmente, dopo qualche tempo, nelle viscere di una città tanto seducente quanto ingannatrice. A Roma servirà in estate un ottimo direttore sportivo, ma ancora prima Roma aveva bisogno di qualcuno che sapesse gestire giocatori, ambiente, tifosi. Roma aveva bisogno di tornare a vincere, non importa come e non importa cosa. Roma aveva bisogno, per dirla in due parole, di José Mourinho.