E rispecchia un allenatore unico al mondo.
Lo ha detto pure Arne Slot, l’allenatore avversario, a fine gara: Mourinho è capace di spingere i suoi giocatori oltre il limite. Una condizione imprescindibile affinché, ieri sera, la Roma potesse eliminare un ottimo Feyenoord, autore di una prestazione, in realtà, anche superiore rispetto a quella dell’andata: gli olandesi si sono dimostrati una squadra vera, al tempo stesso di carattere e di qualità, venuta in un Olimpico infuocato a proporre il proprio gioco, mantenendo per larghi tratti il pallino della gara e andando a una manciata di minuti dalla qualificazione, rimessa in discussione dalla prodezza all’89’ di Paulo Dybala – perché in fondo il calcio è un gioco semplice, e il fuoriclasse decide i destini.
Ma se c’è una certezza nel cuore e nella testa di ogni romanista, almeno di quelli onesti, e non vittime di una volontà di potenza post-imperiale, è che questa partita senza Mourinho i giallorossi non l’avrebbero mai vinta. Troppe ne hanno viste e vissute, di partite così: troppi appuntamenti importanti, troppi Olimpici vibranti e irrazionali, troppe cadute rovinose; un copione che sembrava potersi ripetere dopo i primi 5 minuti arrembanti romanisti, presto disinnescati dalla ragnatela e dal palleggio sicuro del Feyenoord (qualcuno, qualche grande o semi-grande club, prenda subito quel 10, Orkun Kökçü, letteralmente di un altro livello).
E però questa Roma, negli ultimi due anni, ci ha abituato a soffrire e colpire.
Una squadra cinica, spietata, che dà l’impressione di creare poco ma paradossalmente crea tantissimo – ieri altri due legni, che aggiornano una classifica in cui i giallorossi sono primatisti addirittura nei cinque maggiori campionati europei. Una squadra capace di reggere di nervi e di combinare testa e cuore, cosa che sulla sponda giallorossa del Tevere non si vedeva da tempo, tanto tempo. E una squadra capace di andare oltre i propri limiti perché li riconosce, quei limiti, ne é consapevole proprio come il suo allenatore. Torniamo al punto: chi critica Mourinho, ahilui o ahilei, di pallone capisce davvero poco.
O meglio capisce poco di uomini e di vita, e quindi di pallone. Gente che crede di sapere di calcio e proprio per questo non sa nulla di calcio (cit.): gente convinta che la crescita di un club, lo sviluppo di un progetto, passi esclusivamente dal gioco, offensivo e dominante. Gente per cui il football non è fatto da uomini ma da pedine su una lavagna, sicura che questo sport si esaurisca laddove finisce il campo, che si limiti ai fatti e alle tattiche di campo. E che quindi giudica un allenatore esclusivamente dall’estetica del gioco espresso dalla sua squadra.
La verità è che un club lo fa crescere anche – forse soprattutto, in particolare quei club con dei limiti caratteriali com’era la Roma – uno come José Mourinho, capace di portare un trofeo europeo in città dopo 60 anni, di raggiungere l’anno dopo le semifinali in Europa League, di essere in piena corsa Champions al momento sopra le ben più attrezzate milanesi. Perché poi c’è questa leggenda per cui certi allenatori, gestori – così li chiamano – presunti autoreferenziali che vengono, vedono e vincono, lascino poi il deserto, la terra bruciata e la squadra spremuta. Ma quando mai. José Mourinho, soprattutto se aiutato in sede di mercato, lascerà una Roma più forte e più consapevole di quella trovata.
Posto che le partite le vincono sempre i giocatori, se dopo la Real Sociedad avevamo scritto che la vittoria era stata (anche) dei tifosi della Roma, questa volta la partita l’ha vinta soprattutto Mourinho. Certo l’Olimpico era altrettanto e anzi forse ancora più caldo, pure troppo: caldo al punto da far quasi andare in confusione i giocatori, questa era l’impressione nel primo tempo, soprattutto nella seconda metà quando la Roma si limitava a lanciare la palla avanti in balìa della manovra avversaria, ma senza dare quella sensazione di controllo anche nella sofferenza, di potenziale pericolosità alla prima occasione.
Il Feyenoord giocava senza paura e sembrava che i soliti demoni giallorossi stessero pian piano tornando a materializzarsi, che la partita stesse scivolando su un piano critico che i tifosi della Roma iniziavano a percepire nelle sue prime avvisaglie apocalittiche; abituati a tutte quelle vigilie incandescenti, a tutte quelle partite talmente caricate da finire poi, puntualmente, per mandare la squadra fuori giri. Ma Mourinho è un autentico maestro in questo: è un direttore d’orchestra del caos, gestisce come nessun altro sentimenti impetuosi, che sfuggirebbero di mano a chiunque.
Controlla l’incontrollabile per di più in una città come Roma. Scherza col fuoco e lo domina.
Per questo chi continua a parlare del suo gioco, bello o brutto che sia, è anni luce fuori strada. Soffre di una strana perversione che può svilupparsi e alimentarsi solo sui social network, (non) luogo della chiacchiera e dell’equivoco per eccellenza, delle opinioni più superficiali e fallaci. Mourinho ha creato innanzitutto una squadra di uomini con testa, cuore e palle, capaci di andare “oltre i propri limiti” come ha riconosciuto Slot. Il quale ha aggiunto: «Noi abbiamo fatto molto bene, ma Mourinho mi insegnerà che il calcio non è sempre una questione di bel gioco, bensì di risultati. Comunque, non avevo bisogno di questa lezione. Possiamo essere orgogliosi del nostro percorso, ma purtroppo conta solo vincere».
Conta vincere, che poi non si tratta neanche di risultatismo, giochismo e queste soffocanti, irritanti etichette. Tutti gli allenatori sono per necessità risultatisti, ad alti livelli, ma ognuno costruisce la sua strada alla vittoria, come ogni club ha il suo progetto di crescita. La strada di Mourinho, e della Roma, è un po’ come il gioco della squadra: si vede poco ma produce tanto, tantissimo. Un apparente paradosso ma unicamente per chi sa solo, e quindi niente, di calcio.