Di giorno o di notte, Rafa Nadal impone la sua legge.
Vedere Rafael Nadal muoversi sul Philippe-Chatrier del Roland Garros è sempre un’esperienza sportivamente catartica, che sfiora la mistica – una parola che, non a caso, abbiamo usato per celebrare i recenti successi in Champions League della sua squadra del cuore. Il maiorchino, 36 anni dopodomani e un fisico che gli sta facendo pagare tutti gli sforzi sovrumani fatti in carriera, non è più quello di un tempo: l’atleta totalizzante e ingiocabile (almeno sulla terra) che, fin dai tempi in cui si presentava con le spalle scoperte e i pinocchietti, lasciava le briciole ai suoi avversari. Eppure quando calpesta i campi di Parigi qualcosa sembra magicamente cambiare.
«È divertente perché mio padre, Sergi [Bruguera] ed io abbiamo guardato Rafa allenarsi e all’improvviso il suo dritto è 30 chilometri all’ora più veloce. Si muove più leggero in piedi. C’è qualcosa in questo campo che lo fa giocare il 30% meglio, solo per essere qui».
Così parlava Sascha Zverev, ben prima di sapere che sarebbe stato il Re Sole il suo avversario nel penultimo atto del torneo parigino. E questa è la base per spiegare la vittoria, netta, celebrata nella nottata di ieri su Novak Djokovic, il cinquantanovesimo atto della supersfida più giocata nella storia del tennis. Una sfida a cui Rafa per la prima volta arrivava da sfavorito, anche per gli allibratori digitali di mezzo mondo che davano per probabile vincitore il serbo numero 1 del mondo, perfetto nel suo cammino immacolato fino a quel punto.
D’altronde gli indizi, in avvicinamento al secondo slam stagionale, erano molti: il trionfo romano di Nole e i dolori simultanei di Rafa, nonché le difficoltà avute da Nadal a Parigi agli ottavi di finale – 5 set e quattro ore e mezza di partita negli ottavi contro il pupillo dello zio Toni, Felix Auger-Aliassime. Infine la scelta, mai così dibattuta, dell’order of play, che ha visto Amelie Mouresmo pianificare la sfida nel programma serale accontentando le emittenti televisive ma scontentando Nadal, che ama giocare sotto il sole francese quando la sua palla salta alta, si contorce come una biscia e gestirla è difficile – se non impossibile – per chiunque.
Tutte architetture plausibili nella mente degli opinionisti, limiti che sarebbero stati invalicabili per altri che non fossero Nadal. Il quale, già all’inizio del torneo, aveva dichiarato: «Sono qui solo per giocare a tennis e cercare di raggiungere il miglior risultato possibile al Roland Garros. E se non credessi di poterci riuscire probabilmente non sarei qui». Niente più e niente meno di quello che ha fatto ieri sera, tartassando Djokovic con colpi penetranti e profondi che sembravano affiorare dal cassetto di un Nadal di annata. Rafa sul centrale, sotto i riflettori, si muoveva con la consapevolezza crepuscolare dell’esperienza. Lo faceva con una centralità assoluta, sulla scorta dei tredici trionfi accumulati tra quelle mura.
Frastornando Nole nel primo set (un 6-2 che però dava l’impressione di essere più di studio e “riscaldamento”), ma dando sempre l’intenzione di essere mentalmente – ben prima che tennisticamente – superiore al suo avversario. Così dopo un lungo secondo set chiuso 6-4 dal suo avversario, e quando in molti credevano fosse girata l’inerzia della partita, Nadal si è subito portato avanti nel terzo set di un break, poi due, chiudendo anche questo 6-2; a dimostrazione che il secondo parziale (seppure durato 88 minuti) era stato uno sforzo molto più grande, a livello soprattutto nervoso e mentale, proprio per Djokovic.
Ma il vero turning point della partita si è avuto nel quarto set, quando il serbo ha servito per portare la partita al quinto.
Qui il Philippe-Chatrier è entrato nella sfida con tutta la sua prepotenza, anche quella maleducata di un tifo in versione ultras per il maiorchino – lontani i bei tempi in cui almeno il tennis restava fuori dalle logiche di stadio, e i cori sguaiati si registravano solo in Coppa Davis o a New York. Così mentre dagli spalti si alzava “Rafa-Rafa-Rafa”, un sostegno che andava contro gli “interessi” stessi degli spettatori – i quali solitamente tifano sempre perché una partita si prolunghi e arrivi al quinto – Djokovic è crollato: nervosamente e fisicamente, due fattori strettamente collegati per un teorico dell’olismo come lui. Glielo si è letto in volto. Un duro colpo per chi come Nole vorrebbe solo essere amato, a maggior ragione dopo mesi più sofferti di quanto si possa pensare – tra lo stigma del no-vax, i processi mediatici e l’esclusione dai tornei australiani ed americani.
Il tifo contrario gli è entrato in testa, modificandone le espressioni e contraendone gambe e braccio. E pure tatticamente Djokovic ha iniziato ad essere meno lucido, cercando colpi risolutori e giocando troppo spesso sul lato sinistro di Rafa – anziché chiuderlo con il suo dritto in cross nell’angolo del rovescio, una strategia che anche l’anno scorso, da queste parti, si era rivelata vincente. Così Rafa è salito, conquistando l’inerzia emotiva e tecnica della partita; e da lì non è mai sceso, recuperando il break e poi portandosi avanti sul 6-1 nel tie-break decisivo (chiuso poi 7-4).
Una considerazione che ormai potrebbe essere allargata a molti stadi, specchi fedeli dei tempi in cui viviamo e tutto diventa tifo (anche il nobile tennis)
Braccia al cielo che sanno di trionfo, «è stata una partita incredibile, una notte indimenticabile» salvo poi rientrare nel personaggio e ricordare a tutti la cruda realtà di questo sport: «è solo un quarto di finale, non ho vinto nulla, mi sono solo dato la possibilità di tornare in campo tra due giorni». Un’insidia questa la più concreta per il Re di Parigi. Solitamente dopo aver battuto Djokovic si alza un trofeo, questa volta invece è solo parte del percorso. Le eliminazioni di Alcaraz, Tsitsipas, se vogliamo anche della testa di serie n2 Medvedev hanno aperto una squarcio nel tabellone – soprattutto nella parte bassa, che porterà in finale uno tra Rublev, Ruud, Cilic e Rune.
L’unico rischio per Rafa è allora di trovarsi svuotato di energie mentali e fisiche, seppure i due giorni di riposo negli Slam aiutano ampiamente ad ammortizzare rispetto ai tornei 1000.
Nel frattempo, lo spagnolo non manca di ricordarci le condizioni precarie del suo piede: «Non so cosa accadrà dopo questo torneo. Su questo sono molto chiaro, non devo nascondere nulla alla mia età. Ho quello che ho nel piede e se non troviamo una soluzione per me sarà davvero difficile proseguire. Al momento non abbiamo scoperto una nuova via. Giocare le semifinali mi dà molta energia e vedremo come andrà il piede. Ho già detto a Roma che avere il mio medico al seguito mi aiuta nel lavoro. Faccio di tutto per cercare di giocare nelle migliori condizioni».
Le solite frasi dell’ultimo periodo, che se non conoscessimo Nadal potremmo derubricare a scuse e scaramanzie della peggior specie, mezzucci per togliersi pressione dalle spalle e mettere le mani avanti. Eppure con Rafa, soprattutto al Roland Garros, queste subdole insinuazioni vengono spazzate via da qualcosa di più grande. Da uno dei più grandi atleti nella storia dello sport, forse il più grande che ci sia sotto l’aspetto mentale, e dalla mistica del Philippe-Chatrier: un campo unico, che non ha alcuna intenzione di abbandonare il suo figlio prediletto.