Il football al you can eat non sa di niente.
Pensavamo di essere solo noi, disillusi scambiati per nostalgici, ultimi e penultimi romantici ancorati a un vecchio calcio che purtroppo non c’è più. Quel (fu) gioco più bello del mondo (cit. Brera) che ci ha fatto innamorare e appassionare per i suoi caratteri identitari, culturali, sociali, quasi religiosi, sicuramente meta-fisici nel senso che andavano al di là della pura fisica, ovvero dei fatti di campo in sé, e sfociavano in una fede condivisa che si alimentava di riti, simboli e travolgenti passioni, tali da condizionare le nostre vite.
Pensavamo di essere noi e invece, parlando in giro con le persone, tante persone di diverse età, sensibilità, zone ed estrazioni sociali, osservando, ascoltando, ci siamo resi conto che questo nuovo calcio ha stancato un po’ tutti, o almeno tutti coloro che hanno conosciuto il vecchio calcio. Un nuovo sport a misura di consumatore prima che di tifoso, pensato e confezionato come uno show che debba fare concorrenza a Netflix e Play Station (come confessato da molti potenti del pallone) e non invece come il più grande fenomeno sociale dell’epoca moderna, come un bisogno esistenziale dell’uomo che “tocca un elemento primordiale dell’umanità”, per citare Ratzinger.
Perché nel momento in cui si rende il calcio spettacolo tra gli altri, la competizione l’ha già persa: se diventa show, se ne troverà sempre uno più avvincente. Bisogna invece far passare un messaggio diametralmente opposto: il calcio non è spettacolo, è vita stessa. Non occupa il tempo, è il tempo.
Per venderlo, per spremere sempre di più quella che Massimo Fini chiamava ‘la gallina dalle uova d’oro’, per fare del pallone un’industria infinitamente redditizia la si è privata dei suoi contenuti più puri e appassionanti. Ma così si è costretti a rilanciare sempre di più per rendere quello spettacolo ogni anno più avvincente, come in una bolla obbligata a gonfiarsi per non scoppiare, una ruota che deve continuare a girare, e via via più veloce, per non fermarsi – e infatti la gente non riesce più a starci dietro. Fino al punto di rottura, che al momento ci si è illusi di evitare respingendo e assorbendo i principi della Superlega.
La giostra quest’anno è ripartita ma con sempre più scricchiolii e, se non fosse per il fantacalcio o le scommesse, espedienti che permettono ai singoli di “possedere” in qualche modo il pallone, di seguirlo e consumarlo, l’interesse rasenterebbe lo zero. La sensazione è quella di un’indigestione dalla quale non abbiamo avuto il tempo di ristabilirci, di una nausea che ancora ci leva l’appetito, di un’impossibilità di trovare nel football prime tutti quei caratteri che così tanto avevano significato per noi.
La cosiddetta Super Champions, pompata da tutti i media ma mai così trascurabile per tanti tifosi, a livello di coinvolgimento ancor prima che di share, è rappresentazione plastica di questa stanchezza diffusa, soprattutto considerate la novità e la portata della competizione – sulla carta il più importante torneo per club, per qualità e quantità, che ci sia mai stato. Non c’era attesa nell’aria, non c’era quel palpabile interesse che tanti si sarebbero aspettati, non c’era più l’illusione, benché meno lo stupore o la curiosità. La super Champions è una competizione nata già stanca.
Più l’interesse generale cala allora, lo ripetiamo, più si tentano mosse disperate e scomposte per rilanciare, come in una partita di poker sfortunata nella quale più si va sotto più si punta in alto per recuperare: il problema è che questo azzardo, secondo noi e non solo, non può pagare. La nuova Champions vive uno squilibrio palpabile tra narrazione e realtà, laddove ad un racconto di trofeo imperdibile corrisponde un disinteresse crescente tra sempre più persone, che non ne possono più di questo calcio drogato, pompato, spettacolarizzato, di un football trasformato in NBA e venduto come un prodotto, di tifosi diventati consumatori, di calendari fitti per undici mesi l’anno, di fondi e federazioni speculative.
Il paradosso allora è questo, che di fronte a match di cartello e main event continui il coinvolgimento, anziché crescere, cala.
Perché questi sono stati resi appuntamenti ordinari e non più straordinari (stesso principio per cui il mondiale perderebbe la sua magia se giocato ogni due anni, altra insana idea che aveva avuto la FIFA) ma soprattutto perché il calcio, trasformatosi in spettacolo, il fenomeno trasformato in prodotto, ha creato un consumo bulimico che, volendo sempre di più, non sazia mai. Lo abbiamo visto negli ultimi anni: le vittorie sembra come se valgano meno, le partite non hanno più lo stesso significato e con esse la loro attesa, i grandi club sono entità sempre più liquide e finanziarie lontane dai tifosi mentre ciò che resta è il tifo contro l’evidenza, soprattutto quello delle piccole e medie piazze che, più che altro, è difesa del proprio campanile.
Non è una questione di numeri perché questo disinteresse, almeno ad oggi, non si misura con i numeri. Anzi magari si aprono pure nuovi mercati, si coinvolgono giovani spettatori più o meno interessati, ma nel frattempo a rompersi è stata quella connessione sentimentale, quel filo diretto tra tifoso tradizionale e gioco che questo nuovo calcio ha reciso. Un nuovo calcio che può anche continuare ad essere visto, consumato, anche per abitudine e mancanza di alternative, ma che non è più centrale nella vita delle persone e rappresenta sempre meno.
E la cosa peggiore è che, questo è il messaggio che più di tutti ci teniamo a far passare, un tale rifiuto non è ideogico, intellettuale o morale: è fisico, viscerale. Viene dal corpo, dalle viscere, e per questo è così grave se non definitivo, esiziale. A forza di ingozzarci, e di togliere anche sapore a ciò che ci viene somministrato, abbiamo capito che non ne possiamo più, che il nostro organismo non ne può più. Che questo football all you can eat, banalmente, non sa di nulla. Trarne le conseguenze, a questo punto, è solo questione di tempo – e di coraggio.