Il football ha perso la sua innocenza, e noi con lui.
Quella che state leggendo è voce di uno che grida nel deserto [1], a poco più di ventotto anni compiuti (c’è senz’altro da preoccuparsi): il calcio mi ha stufato. L’aggiunta del pronome personale è per tenere al sicuro dalle accuse della folla un pensiero che ha una vocazione editoriale, e quindi si spera comunitaria, popolare. A proposito del titolo, una piccola specifica iniziale: scrivendo “calcio” in realtà ho in mente un certo tipo di fruizione dello spettacolo, che ha a che fare con la televisione in primis e con gli obblighi sociali e socio-lavorativi in secundis. In altre parole il calcio che noi redazione e voi lettori di Contrasti condividiamo a distanza ogni settimana.
Ebbene, questo calcio appare stanco. È un mondo in decomposizione, e non solo per la spasmodica offerta di sempre più partite e leghe – dalla Champions e dall’Europa League ampliate a mo’ di campionati al calcio arabo, facilmente fruibile dai nostri recettori televisivi –, ma anche e soprattutto per la ripetitività di certe formule o dichiarazioni, di dinamiche e narrazioni che non aggiungono nulla, semmai tolgono all’epica dello sport, alla sua congenita – ma ormai geneticamente modificata – imprevedibilità. Associato a quest’ultimo punto, c’è senz’altro quello della genuinità del gioco, sempre meno spontaneo quanto più si mostra al grande pubblico e si specializza ai malefici tecnici del caso.
Deve aver provato un sentimento simile, Marco Ciriello, scrivendo ad esempio, su Domani, che «l’abbondanza dei Giochi non è uguale all’abbondanza del calcio: [qui] non c’è mistero, l’eros muore perché sa cosa lo aspetta» – a proposito quindi della prevedibilità del gioco, tutto uguale a se stesso, sempre più tristemente già noto prima che l’evento sconvolga le nostre esistenze. E così un altro Marco, Piccirillo, sul Napolista, sottolinea che
«s’è consumato il passaggio di consegne tra i Giochi (brand naming perfetto) e la mestizia del pallone ordinario. Un brinamento dell’anima, da stato gassoso a terribilmente solido. Una mattina mi son svegliato e ho cercato un vincitor, ma niente. Ciao Olimpiadi, bella ciao».
Ecco, bella questa formula: la mestizia del pallone ordinario, la chiama Piccirillo. È un sentimento difficile da esprimere, questo brinamento dell’anima, ma le metafore aiutano ad avvicinarsi. Rimaniamo nel metaforico, infatti, perché poi le partite continuiamo a vedercele, allo stadio continuiamo ad andarci, al bar di calcio continuiamo a parlarne. Ma sempre meno, o comunque con sempre meno entusiasmo e fanciullesca felicità.
Qualcosa, per chi è cresciuto a pane e pallone, si è rotto, ma è difficile definire questa rottura, perché noi stessi siamo tra le crepe – e d’altra parte, il continuare a vedere e vivere di calcio può banalmente essere conseguenza di un’abitudine talmente radicata da rendere quasi impossibile una diagnosi di questo tipo, un meccanismo simile a quello delle dipendenze in fondo.
[1] Isaia 40,3